Un poliziotto al centralino e una chiamata innesca un nordico thriller claustrofobico



Buio. Un telefono squilla. A rispondere è l’agente di polizia Asger Holm, un uomo tormentato da qualche ombra che si annida nel suo passato. Lo attende un processo, l’indomani, in cui è chiamato a rispondere di un omicidio avvenuto durante lo svolgimento delle sue mansioni e di cui sono ancora da accertare le sue effettive responsabilità. E mentre attende di sapere se e quando potrà riprendere regolare servizio, Holm è temporaneamente confinato tra le quattro mura di un centralino telefonico per le emergenze. Risponde, con un certo fastidio e buona dose di insofferenza, alle richieste di aiuto che arrivano incessantemente, notte e giorno. A fine turno, durante quella che potrebbe essere la sua ultima giornata di lavoro al call-center, una chiamata cattura la sua attenzione. All’altro capo del filo c’è una donna in lacrime che si dice rapita dall’ex-marito, lanciato in fuga verso il Nord della Danimarca, mentre i suoi due bambini sono stati lasciati da soli a casa. Forse per Holm quella telefonata rappresenta un’occasione di riscatto. Così non indugia. Una telefonata dietro l’altra, si lancia in una folle corsa contro il tempo per riuscire a mettere la donna in salvo. Il caso, però, riserva inaspettati colpi di scena. Non tutto è ciò che sembra, la verità non sempre è manifesta e dietro alle apparenze può celarsi una realtà molto più complessa e insospettabile.

È soprattutto sugli elementi astratti che si gioca la forza di questo notevole esordio che batte bandiera danese: il giovane regista Gustav Möller, qui alla sua prima regia, mette in scena un thriller angusto e claustrofobico, un kammerspiele rinchiuso dentro alle pareti di due stanze, scandito da un ritmo a orologeria che tiene sempre alta la tensione emotiva. Ma sotto l’abito del thriller e del cinema di genere, “Il colpevole - The Guilty”, che arriva in sala con Movies Inspired dopo un lungo anno di successi festivalieri cominciati al Sundance del 2018, nasconde una raffinata riflessione sulla colpa (del resto, il titolo ne è un chiaro indizio). Sulla colpa e l’espiazione, sulla verità e la menzogna, sulla realtà e le apparenze. Con uno sguardo radicale e quasi “rigido” che non può non affondare le sue radici nella cultura nordica e protestante.

Möller si affida molto alla parola (sua anche la sceneggiatura, firmata a quattro mani con Emil Nygaard Albertsen) e al concetto di tempo (tempo reale che coincide con quello della finzione). Condiziona la regia alla negazione dello spazio, ma non in senso privativo. Anzi. L’assenza di vie di fuga non fa che accrescere l’angoscia e la messa in scena fatta di piani strettissimi, che regge anche grazie alla performance notevolissima del protagonista Jakob Cedergren, in scena dal primo all’ultimo minuto, chiama in causa un uso del fuori-campo che deve più al trip ansiogeno di “Talk Radio” (per ciò che è precluso alla nostra vista e alla nostra volontà) che alla corsa in automobile di “Locke”.

La verità viene fuori un po’ alla volta. Ma ciò che conta non è tanto la soluzione finale del giallo, quanto il processo di espiazione di un uomo messo a nudo, costretto a fare i conti con i propri fantasmi. —



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