Una “Tradotta” per il Museo della Grande guerra

Domani l’esposizione permanente di Gorizia festeggia i 90 anni con uno spettacolo di Manuela Marussi e Roberto Covaz
Di Stefano Bizzi

GORIZIA. “La tradotta che parte da Torino/ a Milano non si ferma più/ ma la va diretta al Piave/ cimitero della gioventù”. Il treno portava al fronte, ma riportava anche a casa. Non tutti però, solo i fortunati facevano ritorno. Quelli che per un motivo o per un altro riuscivano a sopravvivere alla trincea avevano il privilegio di risalire sui vagoni per viaggiare verso i propri affetti. Citate in tante canzoni di guerra, le tradotte militari sono il simbolo della morte, ma sono anche il simbolo della speranza. Non è un caso che a Gorizia il percorso del Museo provinciale della Grande guerra inizi e finisca con le foto dei soldati in stazione; e non è neppure un caso che, domani, per celebrare i 90 anni dall’inaugurazione del museo, a Borgo Castello verrà proposto alle 11.30 un originale spettacolo dal significativo titolo “La Tradotta”.

Un po’ recital, un po’ concerto, un po’ racconto, il progetto ideato da Manuela Marussi in collaborazione con Roberto Covaz è un immaginario viaggio verso la guerra cucito con i testi di autori come Kipling e Stuparich. Un viaggio di andata e ritorno attraverso i luoghi del conflitto attende anche i visitatori del museo. Oggi le otto sale allestite nei sotterranei delle antiche case Dornberg e Tasso, da un lato, raccontano senza retorica la tragedia umana vissuta dai soldati di entrambi gli schieramenti, dall’altro, disegnano il dramma delle popolazioni civili coinvolte dalle operazioni belliche di inizio secolo. In origine l’allestimento era stato pensato in chiave propagandistica.

Nel 1924 il direttore di quello che allora era semplicemente il Museo provinciale del territorio goriziano nato nel 1861 aveva intuito che un evento epocale come la Prima guerra mondiale doveva in qualche modo essere raccontato. A Giovanni Cossar però mancava la prospettiva storica. Aveva iniziato a raccogliere il materiale già durante il conflitto e già al termine della guerra si trovò in mano molti oggetti e cimeli da esporre.

Il patrimonio aumentò quando, dalle pagine dei giornali locali, rivolse un appello ai cittadini affinché donassero il materiale bellico in loro possesso. Allora il museo si trovava a Palazzo Attems-Petzenstein, ma alla Grande guerra erano riservati solo l’atrio e altre quattro sale. Questo primo nucleo ribattezzato Museo della Redenzione doveva semplicemente dimostrare l’italianità di Gorizia dai periodi più remoti all’età contemporanea. Da quel giorno, in linea con le nuove conoscenze storiografiche, con l’ammodernamento del linguaggio espositivo e, soprattutto, con la consapevolezza del ruolo che un’istituzione del genere doveva avere, il museo ha subito profonde modifiche. L’allestimento attuale è stato inaugurato nella sede di Borgo Castello l’11 giugno 1990, ma una prima modifica venne operata già nel 1938. In quel periodo l’Isontino attirava il turismo dei reduci e una commissione scientifica affidò il restauro della struttura all’architetto Celstino Petrone. L’estetica non poteva non essere quella fascista e se da un lato gli ambienti di palazzo Attems-Petzenstein vennero stravolti, dall’altro venne dato un ordine ai materiali precedentemente accumulati in maniera poco razionale da Cossar.

Nel secondo dopoguerra l’attività museale conobbe un periodo di stallo, ma nel 1958 con l’allestimento di Paolo Caccia Dominioni vennero eliminati i riferimenti fascisti e, soprattutto, si allargò l’orizzonte: una sala venne dedicata all’esercito austro-ungarico. Il museo rimase in piazza De Amicis fino all’alluvione del 1893 quando il 17 ottobre l’acqua danneggiò gravemente la collezione rendendo necessario un lungo lavoro di restauro e riordino che portò al definitivo trasferimento in Borgo Castello. Le sale inaugurate ventiquattro anni fa rappresentano il risultato delle nuove ricerche. L’obiettivo è raccontare l’esperienza vissuta cent’anni fa da milioni di uomini: indipendentemente dalla divisa indossata, le loro sofferenze sono state identiche. L’allestimento studiato dagli storici Lucio Fabi e Antonio Sema parla ad un pubblico eterogeneo desideroso di conoscere la storia attraverso le vicende di chi l’ha vissuta scrivendola dal basso, giorno dopo giorno, spesso a costo della vita. Ai visitatori viene proposto il punto di vista di chi si è trovato a combattere contro un nemico che spesso non sentiva nemmeno come tale. Oltre alla scrivania del generale Diaz, al pastrano del generale Cadorna o alle giubbe dei tenenti Baruzzi e Caccia Dominioni, si trova una bicicletta Bianchi da bersagliere completa di equipaggiamento, ma si trovano anche le lettere dei soldati, gli oggetti di uso quotidiano realizzati al fronte e le immagini di una Gorizia distrutta dai bombardamenti e popolata di militari. Per spiegare l’orrore del conflitto e farlo vivere in modo più partecipato, il visitatore finisce col ritrovarsi al margine di un campo di battaglia ad osservare i caduti di entrambi gli schieramenti. E di grande impatto emotivo è anche la ricostruzione della trincea con i suoni angoscianti dell’assalto. Tra spari, esplosioni, grida, sibili di granate, deflagrazioni a catena, gli scontri non si vedono, ma si materializzano nitidi e terribili nella mente del visitatore e lì restano fino alla fine, quando si sale simbolicamente sulla tradotta e si torna a casa.

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