Una via italiana al best seller

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Era il 1983. Davanti a libri di enorme successo come “Il padrino” di Mario Puzo, Alberto Moravia tirava dritto. Convinto che gli autori italiani non si sarebbero mai piegati alle regole del mercato. Perché, spiegava, «da noi non esistono scrittori che riconoscano di essere commerciali (anche quando lo sono)». Trent’anni dopo, quelle parolo hanno ancora valore?
La caccia al best seller, anche in Italia, è partita fin dai tempi del “Gattopardo”. Come racconta Giampaolo Borghello, veronese di origine, formatosi alla Normale di Pisa, entrato nella scuola triestina di Giuseppe Petronio e poi nominato ordinario di Letteratura italiana e direttore del Dipartimento di Italianistica a Udine, nel suo saggio “Come nasce un best seller”, poubblicato dalla casa editrice Forum. Lo presenterà oggi alla Biblioteca “Crise” di largo Papa Giovanni XXIII a Trieste, alle 17, dialogando con Elvio Guagnini negli incontri del Circolo della Cultura e delle Arti.
«Tutti dicevano: esiste la letteratura di consumo, ma la fanno gli altri non noi - spiega Giampaolo Borghello -. E la situazione italiana è sempre stata un po’ così. Un ibrido. Un compromesso di chi scrive per i lettori, e per avere visibilità, pur tenendo l’occhio fermo sulla grande tradizione letteraria».
E oggi?
«Non è cambiata molto la situazione. Anche perché se vuoi scrivere un vero best seller internazionale devi fare i conti con la lingua. Devi usare l’inglese per essere sul mercato».
Cinquant’anni fa il Gruppo 63 considerava Giorgio Bassani e Carlo Cassola come i nuovi Liala...
«Mentre Pier Paolo Pasolini li difendeva, sentendo nella provocazione l’uccisione metaforica della cultura esistente. Perché allora come oggi, Bassani e Cassola appaiono autori rispettabili. Ma dobbiamo pensare che il progetto della neoavanguardia mirava soprattutto a scalzare chi già c’era».
Loro vendevano e quelli del Gruppo 63 no?
«Credo fosse anche un problema di leggibilità dei testi. Come segnalava Petronio, quello che andava scrivendo Edoardo Sanguineti non era facile da digerire. E non conquistava il pubblico. Il successo di Bassani, di Cassola, è legato a quel periodo in cui anche l’Italia provò a creare un libro di successo».
La prima volta?
«“Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uscito postumo, rappresenta il primo sussulto dell’industria editoriale. Prova ne sia che superò il “muro del suono” delle 100mila copie vendute».
E ne vendette addirittura 400mila in pochi mesi...
«Non è a caso che a lanciare il romanzo, rifiutato da Elio Vittorini, sia stato proprio Giorgio Bassani. Uno scrittore destinato, all’inizio, a raggiungere pochi lettori. Ma che a un certo punto, passando all’Einaudi, era diventato autore di successo».
Senza dimenticare il fiuto di un editore come Gian Giacomo Feltrinelli...
«Fu lui che riuscì a ripetere l’operazione Gattopardo con “Il dottor Živago” di Boris Pasternak. Cogliendo, con un’intuizione geniale, le grandi potenzialità dei due romanzi. Ovviamente, non va sottovalutato poi il ruolo dei film tratti dai libri, che hanno dato un grande aiuto a renderli ancora più popolari».
La scuola triestina ha iniziato per prima a occuparsi di letteratura di consumo?
«È del lontano 1978 il primo convegno triestino, nella vecchia Aula Ferrero di Lettere, intitolato proprio “Trivialliteratur? Letterature di massa e di consumo”. E il punto di domanda non era stato messo a caso. Voleva significare che le ricerche erano in corso».
La critica italiana, in quegli anni, non si occupava di letteratura di consumo?
«No, è stata una scelta anticoformista e pionieristica. Molti docenti, negli anni ’70 e ’80, avevano costruito un modello rigido di lettura dei libri e non l’avevano più cambiato. Al contrario, Petronio ha continuato a mettersi in discussione. Aprendo filoni di studio totalmente nuovi».
Oggi, mettere Isaac Asimov o Ray Bradbury nella storia della letteratura sembra normale.
«Allora la fantascienza non veniva considerata proprio. Ma interessante, a questo proposito, è ricordare il lavoro svolto dalla scuola milanese di Vittorio Spinazzola con i volumi “Tirature” per capire come cambiano, nel corso del tempo, i gusti del pubblico».
Piero Chiara è stato il primo vero scrittore di successo?
«Anche grazie a quella straordinaria figura di editor, in anticipo sui tempi, che era Vittorio Sereni. Come lo chiamava Franco Fortini, “poeta e di poeti funzionario”. Fu lui a inventare il Tornasole per Mondadori, una collana di libri “minori” pensati per un vasto pubblico. E fu lui a convincere Chiara a trasformare in romanzi le sue affascinanti conversazioni».
Vendeva tanto?
«Si dice che ci fossero in giro per l’Italia quattro milioni di libri di Chiara. Una gallina dalle uova d’oro. Altro che “Uovo al cianuro”, come recita il titolo di una sua raccolta di racconti».
amezlo
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo








