Un’infermiera elabora il suo lutto scegliendo di tornare nell’hospice

Elisa Grando
La fila di camion carichi di bare che da Bergamo si allontana solitaria nella notte resterà nelle nostre menti come il simbolo della tragedia forse più dolorosa di questa pandemia, quella delle tante persone morte da sole, in ospedale, senza poter avere il conforto dei propri cari. Quel passaggio così delicato verso la fine della vita, invece, fuori dall’emergenza può essere molto diverso, sia per chi se ne va che per chi resta.
Lo racconta “Al Dio ignoto”, l’ultimo film del regista Rodolfo Bisatti, padovano d’origine ma triestino d’adozione, ambientato proprio negli hospice dedicati alle cure palliative e disponibile ora per la visione sulla piattaforma streaming di Chili. Con la sua casa di produzione di base a Trieste, Kineo Film, Bisatti ha già girato in città anche i film “La donna e il drago”, “Voci nel buio” e “La crudeltà del mare”.
Questa volta ha scelto come location due veri hospice di Treviso e Merano per raccontare la storia di Lucia (interpretata dalla moglie del regista Laura Pellicciari, attrice e produttrice), un’infermiera che, per elaborare il terribile lutto della morte della figlia, decide di tornare nel luogo dove ha dovuto dirle addio, dedicandosi proprio alla cura dei malati terminali. Sarà uno dei pazienti ad aiutarla a ricucire il rapporto con la vita, l’anziano professore di filosofia interpretato dal grande Paolo Bonacelli. «È un film sul “prendersi cura”, tema ancor più significativo oggi, in questa situazione drammatica: non poter salutare le persone che si ammalano e muoiono è lacerante e va contro ogni dimensione umana», afferma Bisatti. L’argomento, però, non riguarda solo la stretta attualità: «Anche prima del Coronavirus, nel mondo occidentale contemporaneo c’era una sorta di rimozione della morte, mentre è un passaggio con il quale tutte le civiltà fanno i conti, come dimostra lo studio delle necropoli e delle tombe. Questa considerazione mi ha spinto a costruire il film. La rimozione della morte non esiste invece nella parte della medicina che si occupa non di guarire, ma di curare: il palliativo, nato alla fine degli anni ’50 in Inghilterra grazie all’infermiera Cicely Saunders».
Quello di Bisatti, storico collaboratore di Ermanno Olmi, è un cinema da sempre indipendente, focalizzato su temi civili e tanto permeato dal reale da far entrare appieno nei suoi personaggi il vissuto di chi li interpreta. Come quello del giovane Francesco Cerutti, che interpreta l’altro figlio di Lucia e che, nella vita reale, ha davvero perso prematuramente una sorella. E poi ci sono i volti di quello che Bisatti chiama il “Terzo Cinema”, attori che non hanno seguito scuole professionali ma che lo sono diventati recitando. «È un po’ il superamento del neorealismo dell’attore della strada: l’idea di affidare un ruolo che si addice a quella persona», spiega il regista.
A parte qualche scena ambientata a Trieste, gli esterni del film sono quasi tutti girati fra la potente natura dell’Alto Adige, perché «lo spazio verde, la possibilità di interagire in un ambiente naturale fa parte della terapia palliativa. Il film affronta anche un altro aspetto scabroso per la società contemporanea: il bisogno di un sentimento religioso. Nei mesi di preparazione, fra i veri pazienti, ho visto che la persona vicina alla morte ha necessità di dialogare con la trascendenza. Il titolo del film si ispira a una poesia di Nietzsche: se anche il più acerrimo ateo della storia si è interrogato sulla trascendenza, tanto più dobbiamo farlo noi». —
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