Winwood, a Pordenone è rock vintage

Domani al teatro Verdi il leader dei Traffic, leggenda inossidabile
PORDENONE. Domani Steve Winwood sarà di scena alle 21.15 al Teatro Verdi di Pordenone, seconda data italiana della sua mini tournée nel Bel Paese. “Basta la parola, non ci sono equivoci”, un tempo sosteneva il simpatico Tino Scotti in una ben nota pubblicità televisiva. E la parola, ovvero il nome di Steve Winwood, suscita immediatamente le più belle pagine della storia del rock degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo.


La sua parabola di cantante e polistrumentista è davvero unica, invidiabile, fulgida. Nato nel 1948, Winwood palesa talenti e virtù già in tenera età. Tastierista di livello eccelso, buon chitarrista, capace di spaziare dalla musica seria a quella moderna, fece capolino, inaspettato e adolescente, nella Swinging London che dopo l'esplosione inaspettata dei Beatles elargì a piene mani spazi e palcoscenici al fenomeno travolgente del Beat.


Winwood, appena quindicenne, stupì tutti con la sua voce corposa e ricca di tinte che non aveva nulla da invidiare ai grandi maestri del Rhythm & Blues d'oltreoceano. E fu subito protagonista negli Spencer Davis Group dove, assieme al fratello Muff e all'ottimo percussionista Steve York, scalò le classifiche di tutto il mondo con le sue composizioni. Le ruvide note del suo organo Hammond ruggiscono ancora oggi quei classici senza tempo che rispondono ai nomi di “Gimme Some Lovin”(1966) e “I'm a Man”(1967), brani che evidenziano la sua eccelsa vena compositiva, successivamente ripresi da decine e decine di artisti. Nel successivo periodo psichedelico, un termine che oggi assume un valore complessivo e che incorpora un coacervo di stili eterogenei e variegati, Winwood entrò solo diciottenne ma già in grado di muoversi senza farsi coinvolgere troppo da narghilè e strane pasticche. Nascono i Traffic, e assieme al batterista e paroliere Jim Capaldi, Stevie forma un bel tandem di autori che sforna immediatamente nuovi capolavori in perfetto equilibrio tra vena blues e folk rurale.


Tra le diverse gemme, una citazione per “No face, no name, no number” (1967), ripresa in Italia dall'Equipe 84 e intitolata “Un Anno” con le parole di Mogol, e ancora “No Time To live” e “40.000 Headmen” dal secondo disco omonimo (1968). Versatile, sensibile, Winwood è stato particolarmente richiesto dai colleghi. Numerose le sue collaborazioni e i dischi ai quali ha partecipato come sideman. E è lui, tra l'altro, a salvare l'avventura del supergruppo “Blind Faith” dove appaiono, sbiaditi, Eric Clapton e Ginger Baker dopo lo scioglimento dei Cream. Steve è soprattutto l'organista capace di duettare con Jimi Hendrix nell'imponente “Woodoo Chile” dell'ambizioso “Electric ladyland” (1968).


Subito dopo si aprono gli anni Settanta, Winwood resuscita i Traffic e forgia il suo capolavoro: “John Barleycorn must die” (1970). Il seguito sarà nuovi album dei Traffic sino al 1974 e, successivamente, una carriera solista altalenante dal punto di vista artistico ma certo molto remunerativa. Alle soglie dei settant'anni Steve continua a girare il mondo, incrociando altri terribili vecchietti come gli Steely Dan, con i quali ha condiviso alcune recenti tournée. La cifra del musicista è stratosferica: non mancherà di confermarsi pure nel capoluogo della destra al Tagliamento.


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