Yasmina Khadra: «I libri, specchio dei nostri spettri»

Lo scrittore algerino protagonista dal 5 marzo della 22.edizione della rassegna a Pordenone
Di Fabio Gambaro
Paris, 24-03-2014 KHADRA Yasmine, writer © BASSO CANNARSA
Paris, 24-03-2014 KHADRA Yasmine, writer © BASSO CANNARSA

Conto alla rovescia per Dedica a Yasmina Khadra. La rassegna porta quest’anno a Pordenone lo scrittore algerino Mohammed Moulessehoul che si firma con lo pseudonimo Yasmina Khadra (qui sotto, nella foto di Basso Cannarsa). Sabato 5 marzo uscirà la monografia edita da Thesis/Dedicafestival che contiene un’intervista realizzata da Fabio Gambaro. Ne pubblichiamo una parte per gentile concessione.

di FABIO GAMBARO

Yasmina Khadra, lei oggi è uno degli scrittori di lingua francese più conosciuti al mondo. Se dovesse presentarsi a chi ancora non la conosce, cosa direbbe di sé?

«Il miglior modo per conoscere uno scrittore è leggere i suoi libri. Nei miei credo che ci sia un universo particolare, perché ho la fortuna di avere una doppia cultura, occidentale e arabo-berbera, che mi consente di comprendere entrambi questi mondi. Partendo da tale condizione, cerco di proporre al lettore opere che lo facciano viaggiare, facendolo uscire dalla bolla del suo mondo per confrontarsi con le culture, le mentalità e i drammi che hanno trasformato questo nostro tempo in un'epoca caotica e triste. A chi mi legge, attraverso la storia che racconto presento un insieme di argomenti che gli consentano di trovare il proprio cammino all'interno del libro e delle contraddizioni del nostro tempo. Il mio principale problema di scrittore è di riuscire a trovare le parole giuste per spiegare il nostro presente agli uni e agli altri. Agli orientali vorrei dire che non devono considerare il mondo occidentale come un nemico, e agli occidentali vorrei spiegare che non c'è alcuna minaccia proveniente da oriente, a parte certo il terrorismo, che però è una pandemia, un'ebola ideologica, che, come tutte le malattie, può essere curata. A patto però che si faccia uno sforzo di verità e solidarietà».

In un libro pubblicato nel 2001, “L'écrivain”, lei immagina un dialogo con il poeta Nâzim Hikmet, il quale a un certo punto le dice: «La letteratura è la seconda chance dell'umanità». Lo pensa veramente?

«Ho scritto i miei primi testi in un campo disciplinare dell'esercito, tra il 1966 e il 1968, in un periodo in cui ero assolutamente disperato e vittima di un'ingiustizia terribile. All'epoca avevo ventidue anni e studiavo filosofia all'università. Insieme ad altri studenti, organizzai alcune manifestazioni contro il regime. Il re e i suoi generali ci punirono mandandoci in un campo disciplinare nel nord del Marocco, vicino a Meknes, dove eravamo oggetto di continui maltrattamenti. Poi ci trasferirono in un'altra prigione, dove eravamo sotto il controllo degli ufficiali che più tardi avrebbero tentato un colpo di stato. Era una situazione molto dura e angosciante, anche perché non sapevo assolutamente se un giorno sarei mai stato liberato. Tenerci all'oscuro della durata della detenzione era un modo per farci soffrire ancora di più. Alla fine vi rimasi diciannove mesi, un periodo durante il quale vidi morire tre dei miei compagni di detenzione. Naturalmente il campo era segreto ed era assolutamente vietato parlarne. Eravamo in un paese senza giustizia, dominato dall'arbitrio. E proprio perché non sapevo se mai ne sarei uscito, mi dissi che dovevo lasciare una traccia di quella detenzione, della brutalità, dei maltrattamenti fisici e psicologici che stavamo subendo. Così, di nascosto, ho iniziato a scrivere».

Sempre nelle pagine dell'«Écrivain» ha scritto: «La letteratura è l'ultimo bastione contro la bestialità»...

«La letteratura è una vocazione, non necessariamente una missione. Lo scrittore non ha l'obbligo d'essere un militante. Deve innanzitutto stupirci, toccarci e aiutarci a sfuggire alla banalità del quotidiano. È questa la missione dello scrittore. Alcuni autori però sono anche dei veri militanti dotati di saggezza che hanno capito il mondo e ci aiutano a capirlo. In questo senso sono un bastione contro la bestialità. Tuttavia occorre distinguere tra un letterato e un uomo colto. Il letterato ha avuto accesso al sapere, l'uomo colto invece è un individuo che sa amare e trarre un insegnamento da ogni religione, da ogni cultura, da ogni folclore. Io cerco di muovermi proprio in questa seconda ottica, nella speranza che la mia letteratura possa essere utile».

Non teme di esser troppo ingenuamente ottimista? In fondo, sappiamo che la cultura non preserva dal male e non salva l'umanità. Tutta la grande cultura tedesca non ha impedito lo sterminio degli ebrei...

«Certo. Ma quando voltiamo le spalle ai poeti, ci ritroviamo di fronte alla notte, nella valle delle tenebre e del male. Prima del nazismo la Germania è stata la patria di grandissimi artisti, musicisti, scrittori e filosofi. Il popolo però, voltando le spalle alla loro cultura, decise di scegliersi un altro Dio non certo benevolo, sprofondando il paese in un incubo. Eppure, di fronte al male, la cultura torna ogni volta a ricordarci la vera vocazione dell'umanità, vale a dire la solidarietà, la condivisione, l'amore».

Significa che l'arte e la letteratura, pur non salvandoci, ci mettono in guardia contro i rischi cui andiamo incontro?

«Esatto. L'arte ci convoca, ci richiama all'ordine. Dopo l'incubo nazista, il cinema, la musica, la letteratura ci hanno ricordato i valori fondamentali dell'umanità con i quali è stato possibile ricostruirci. Purtroppo anche il nazismo è stato una cultura, una cultura nefasta e devastatrice. Per il suo messaggio malefico, Hitler ha infatti scelto il libro e ha scritto “Mein Kampf”. La cultura quindi è sempre un campo di battaglia dove combattono culture con connotazioni diverse, un luogo di scontro tra gli angeli e demoni. Alcuni uomini di cultura scelgono di stupirci, altri di renderci intellettualmente e umanamente miserevoli. E noi, in ogni momento della nostra vita, dobbiamo scegliere da che parte stare».

Ma allora esiste una responsabilità dell'uomo di cultura nei confronti della società e del suo pubblico?

«Dicendo che l'uomo è un animale responsabile, Saint-Exupéry ha proposto la più bella definizione dell'essere umano. Io però non credo che l'uomo sia sempre e comunque responsabile. Alcuni scrittori lo sono certamente; altri invece, promuovendo la violenza, il rifiuto degli altri, il razzismo, sono del tutto irresponsabili. La letteratura è un territorio aperto, nel quale a volte incontriamo scrittori meravigliosi che rinforzano la nostra empatia e la nostra compassione nei confronti del prossimo. Altre volte invece c'imbattiamo in scrittori che fanno di tutto per aizzarci gli uni contro gli altri, seminando odio e disordine. E purtroppo il discorso del razzismo e del disprezzo dell'altro trova spesso un pubblico disposto ad ascoltarlo, anche perché il mondo si nutre di frustrazioni. Per fortuna c'è chi trova nella bellezza e nella generosità un antidoto a tali sentimenti. Inoltre, di fronte a un libro possiamo avere reazioni differenti: c'è chi lo ama per la bellezza, lo stile o l'emozione, mentre altri lo detesteranno per gli stessi motivi. La pagina scritta non è altro che uno specchio in cui ci riflettiamo, poiché il rapporto che abbiamo con il libro riflette il rapporto che abbiamo con noi stessi e con il mondo. Per questo ci sono lettori che adorano “Lo straniero” di Camus e altri che lo detestano. Eppure è sempre lo stesso testo».

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