«Io, prof in classe con un solo italiano: così l’integrazione è impossibile»

L’Istituto Giulio Cesare di Mestre ha fatto dell’intercultura la propria missione, una docente della scuola media racconta la sua esperienza

Maria Ducoli
Una mamma musulmana che accompagna la propria figlia a scuola
Una mamma musulmana che accompagna la propria figlia a scuola

Il mondo intero in una classe, ma anche classi che diventano un mondo unico, ripiegato su se stesso e impenetrabile. Classi ghetto, in cui non solo è difficile insegnare, ma anche apprendere.

A raccontarlo è una docente delle medie, all’istituto comprensivo Giulio Cesare, in via Cappuccina. Scuola che ha fatto dell’integrazione culturale la propria missione, accanto a quella educativa, ma che, inevitabilmente, si scontra anche con le difficoltà del caso.

Com’è insegnare in una scuola multiculturale?
«Una sfida. Tutti noi condividiamo il valore dell’intercultura, finché rimane tale. Chi viene alla Giulio Cesare non fa differenze, siamo abituati alle classi con tanti ragazzi stranieri: vista la posizione, la scuola è sempre stata interessata dalle varie ondate migratorie che hanno caratterizzato Mestre».

Ci sono classi in cui i ragazzi stranieri sono più di quelli italiani?

«Sicuramente è un fenomeno che riguarda maggiormente la scuola materna e le elementari, ma anche alle medie iniziamo a vedere casi simili. Io, ad esempio, ho una classe in cui c’è solo uno studente italiano».

In questo caso si può ancora parlare di multiculturalità?

«No, una classe multiculturale è formata da alunni di nazionalità diverse, che portano esperienze e valori diversi. E certo è una ricchezza. Il problema si pone con le classi monoetniche, formate interamente da bengalesi, con un solo italiano».

Come si può fare integrazione?

«Non si riesce. Appartengono a una comunità troppo chiusa e indietro su certe tematiche, come quelle femminili. E quindi, si fa fatica».

Un esempio?

«Se c’è una carta per terra e la bidella chiede di buttarla nel cestino, c’è chi risponde che spetta alle donne pulire».

Lo scoglio maggiore?

«Sicuramente quello linguistico, i ragazzi tra di loro parlano bengalese. Questo ha ripercussioni sia sull’apprendimento, visto che fanno fatica, che sulle dinamiche relazioni: come facciamo, ad esempio, a capire se ci sono casi di bullismo, se non capiamo la lingua che parlano tra di loro?».

A livello didattico le difficoltà linguistiche si riflettono sui risultati in tutte le materie.

«Sì, assistiamo a casi di vero e proprio analfabetismo funzionale. Ragazzi che sanno la lingua e riescono a leggere, ma non capiscono il significato del testo che hanno davanti. La lingua è il veicolo principale per imparare e, nelle classi ghetto, l’italiano viene visto come una seconda lingua, non come quella principale».

Come sono i rapporti con i genitori?
«Sono collaborativi e cerchiamo di spiegare loro che facciamo tutto nell’interesse dei figli. C’è, però, una difficoltà culturale inerente al genere: abbiamo bisogno delle mamme, che non lavorano e quindi sono a casa con i figli, ma ancora troppe non sanno l’italiano».

Come si può fare, quindi, per risolvere questa situazione?

«Non concentrando da noi tutti gli stranieri. La comunità ce li invia anche da fuori Mestre e diversi presidi li mandano da noi dicendo che nelle loro scuole non c’è posto. L’Ufficio scolastico dovrebbe fare un tavolo con tutti i dirigenti e fissare una percentuale massima».

Parlando di scuola multiculturale non si può non pensare allo Ius scholae. Lei che sta in queste classi tutti i giorni, è pro o contro?

«In linea di principio sono a favore e penso che sia una cosa positiva, ma nelle classi monoetniche non avrebbe senso, perché questi ragazzi sono troppo lontani dall’obiettivo. E noi insegnanti siamo i primi ai quali dispiace, perché teniamo al loro futuro».

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