Quel bisogno di un sensore che si accende quando in famiglia si parla d’amore

Mediaticità e morbosità attorno al processo Turetta-Cecchettin e il significato di giustizia: una condanna congrua all’enormità del delitto è sacrosanta. Ma poi ripartiamo con l’attesa?

Fulvio Ervas
Filippo Turetta durante l'interrogatorio come imputato nel processo per l'omicidio dell'ex fidanzata, Giulia Cecchettin
Filippo Turetta durante l'interrogatorio come imputato nel processo per l'omicidio dell'ex fidanzata, Giulia Cecchettin

Il processo per l’omicidio di Giulia Cecchettin, di cui ci arrivano immagini, è luogo oramai abissalmente distante dall’evento che l’ha generato. Luogo di strategie processuali inevitabili. Il tempo della teatralità è la conseguenza di ciò che era accaduto nella vita vera: un coltello, una vita, una morte.

Il processo perciò non può essere diverso da quello che stiamo vedendo. Da un assassinio di tale natura che altro ci si può aspettare? Che si riavvolga il nastro della storia e due vite imbocchino altri, migliori, percorsi?

Sarebbe stato magnifico se, in quella successione di intenzioni, ci fosse stato un colpo di scena, una cascata di altri pensieri: una vita che lascia l’altra a respirare nel mondo.

Resta, a noi tutti, che assistiamo e che non possiamo sentire per davvero le emozioni delle parti coinvolte, l’opportunità di pensare alla complessità del vivere. Io provo a indossare, allora, l’abito del cittadino che si aspetta giustizia. I tanti, troppi, processi su casi che colpiscono la sensibilità generale dei cittadini, riempiono volumi giudiziari, colonne di giornale e comunicati televisivi e c’interrogano su cosa siano serviti, pur nella loro necessità. Ma che cosa ripara (o ricompensa) la giustizia? Che cosa fa comprendere e, magari, cosa cicatrizza?

Mi trovo imbarazzato nel cercare una risposta.

Come cittadino che aspetta giustizia desidero che l’assassino venga tolto dalla vita collettiva per un numero esteso di anni, segnalando a lui, e alla comunità intera, che non si può avere fiducia della sua persona. Tra questi cittadini c’è anche chi ritiene eccessiva la dimensione mediatica del processo. Che lo spettacolo surclassi il contenuto. Chiedono una giusta distanza, una pietas da spargere sopra ciascuno dei protagonisti.

La morbosità di certo non è una risposta civile. Ma l’invisibilità funziona? La diluizione dall’esposizione mediatica protegge? E chi? I protagonisti dei fatti? O serve solo a noi? Così come vorremmo evitare le truci immagini delle guerre, così vorremmo che si mostrasse poco del ventre cupo del nostro vivere. Vorremmo vedere una recita sobria, poche parole di commento.

Ma non ci avvicina alla pace, né riduce gli omicidi questo nostro prendere fiato. Non agisce sulle cause profonde, non produce anticorpi. Solo attese che accada di nuovo.

Ricordo che mentre scrivo, a Bergamo, è stata uccisa a coltellate una ragazza di 19 anni. Allora, dentro al mio abito di cittadino, sento urlare il bisogno che faccende di questo tipo si estinguano. Dinosauri dall’emotività contorta che un meteorite civile dovrà spazzare via.

Sogno che s’inventi una sorta di sensore che si possa mettere in tantissime famiglie e che segnali quanto si discuta, tra genitori e figli, di relazioni, di amore, di sessualità e mi auguro che il sensore s’accenda di una intensa luce tale da indicare che quote importanti del tempo vita non sono sprecate per l’inutile ma per la qualità della formazione dei propri figli.

Certo, una sua luce debole, se non assente, ci dovrebbe far pensare che altre Giulia sono sospese sull’abisso. Che sono già dentro a narrazioni omicide.

È questa, per il mio sentire di padre prima che di cittadino, la colpa imperdonabile di Filippo Turetta: aver costruito una narrazione scritta con il sangue altrui senza avere la coscienza che il sangue è vita e non serve a riempire pagine di diario. Ma se funzionasse, se dedicassimo del tempo alla qualità della relazione forse potrebbe svanire, all’origine, l’idea che la persona che si pensa di amare possa diventare protagonista di un horror e la sceneggiatura, che la mente sta componendo, potrebbe dissolversi d’incanto.

E, pietas o meno, questo tipo di processi parlano anche alla nostra collettiva responsabilità che non riesce a costruire una rete di comunità in cui l’uccidere, soprattutto nel mondo degli affetti, diventi inconcepibile.

Sarà solo responsabilità dello 0,1%, ma proviamo a sentirla. Allora impareremo e non saremo solo, sempre, spettatori. Che magari alzano il ditino critico, girando canale…

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