I 70 anni di Muhammad Ali ma la leggenda non declina

Il più veloce peso massimo della storia ora è in carrozzina, minato dal Parkinson E chiama il vecchio manager Dundee, dicendo di voler allenarsi ancora
30.10.1974 Muhammad Ali floors George Foreman (USA) into a k.o. at the Rumble in the Jungle, WBC & WBA world championship fight
30.10.1974 Muhammad Ali floors George Foreman (USA) into a k.o. at the Rumble in the Jungle, WBC & WBA world championship fight

di Bruno Lubis

TRIESTE

Ha festeggiato i 70 anni Muhammad Ali, nato a Louisville il 17 gennaio 1942. Lui che è stato il più veloce peso massimo della storia adesso si muove in carrozzina, le gambe tremolanti, le braccia senza forze, le mani che non tenono fermo neanche un bicchiere di plastica. Eppure, attorno a quello che viene considerato il più grande massimo della boxe si sono presentati il fratello Rahman, 69 anni, quello che apriva il corteo verso il ring con la corona mondiale in mano, e poi il manager Angelo Dundee. Mancava Bundini, il tuttofare, quello che intuiva ogni gesto del campione. The Greatest.

Era chiamato Labbro di Louisville perché palava troppo, criticava tutti. Voleva far parlare di sé. Vinse l’oro nei mediomnassimi ai Giochi di Roma nel 1960 a neanche 19 anni e poi, da profesionista, volle bruciare le tappe. Voleva arrivare a battersi con Sonny Liston, un portento di forza brutale e resistenza. Nel primo incontro, Liston accusò uno strappo muscolare alla spalla e si ritirò. Nella rivincita Cassius Clay (era il nome di battesimo, quello che lui rifiutò non appena diventò musulmano, perché era un nome da schiavo ed era uguale a una famiglia di cavalli adibiti a tirare calessi nella Virginia) si trovò vincitore per Ko. Nessuno aveva visto il pugno che aveva atterato Liston, neanche nei fotogrammi in pellicola. Clay disse che il suo destro aveva colpito così veloce che neanche la camera tv era in grado di fissarlo.

Giovanissimo campione mondiale, si disfece di avversari tosti e rapidi, come di quelli imponenti. Non ebbe pietà per Paterson, Chuvalo, Cooper, Ernie Terrel, Mathis. Lo fermarono solo le leggi sugli obiettori di coscienza. Diventato mussulmano col nome di Muhammad Ali, il campione rifiutò la chiamata alle armi perché, disse, i Vietcong non gli avevano fatto alcunchè di male e, dunque, lui non voleva andare ad ammazzarli.

Per tre anni gli fu impedito di fare pugilato. E, quando tornò, riprese subito a dare giudizi sferzanti sulle qualità degli ipotetici avversari. Voleva arrivare presto a Joe Frazier, campione in carica. Dovette passare per un paio di mezze figure, poi battè Quarrie e Oscar Bonavena nettamente e, infine, la notte contro Frazier gli risultò drammatica: colpito dai pugni di Smokin’ Joe, Ali finì due volte al tappeto ed ebbe il fegato gonfio dai traumi, la faccia devastata. Anche Frazier non se la passava meglio, con gli occhi chiusi dai jab di Ali.

The Greatest dovette aspettare che Frazier consegnase la corona a Foreman per un’altra chance mondiale. Fu la notte di Kinshasa, un popolo intero in piena notte urlava “Ali buma ye!“(Ali, uccidilo!). E Foreman, sempliciotto, si chiedeva. «Ma come fanno a credergli se sono io più negro di lui?» Potenza del carisma. E infatti, Ali vinse con carisma, lasciò sfogare e affaticare l’immenso Foreman, poi lo colpì d’incontro e lo stese. Un capolavoro descritto da un video professionale e da un libro di Norman Mailer. Praticamente Ali toccò il suo apice in Congo, anche se incontrò poi Norton, ancora Frazier e alcuni personaggi di secondo e terzo piano. A 39 anni disse «Basta». Forse era troppo tardi perché i due incontri finali contro Frazier gli furono fatali. «Voleva ammazzarmi» si lamentò Ali. I due se le dettero senza ritegno, facendosi molto male.

Non passò molto tempo che il Parkinson aggredì Muhammad Ali, a quasi 45 anni. La notizia che l’ex Grates soffriva del morbo di Parkinson uscì a Trieste, in piazza Unità. Alì era arrivato nella nostra città su invito del suo amico Gianni Minà, ottimo giornalista, allora nell’entourage di Bettino Craxi. E Ali doveva presentarsi sul palco di piazza Unità proprio al fianco del leader del Psi, che cercava consensi alla sua politica che iniziava ad avere il fiato corto a causa di certi scandali. La voce si sparse subito e Minà si affrettò a farla smentire. Come se rifiutando la diagnosi anche il morbo se ne dovesse ritrarre da cortanto personaggio. E invece la voce risultò vera, Ali frequentò in Italia città di provincia per non farsi troppo esaminare da occhi meno sussiegosi che batrono le metropoli.

Da allora il calvario di quello che si proclamava «leggero come una farfalla e pungente come un’ape» diventò sempre più penoso. Lo ricordiamo issato da un montacarichi nello stadio di Atlanta con la fiaccola olimpica. Riuscì a immergerla nel braciere per accendere il fuoco sacro agli dei ed ebbe un’ovazione. Poi apparizioni sempre più rare, il corpo traballante, la testa bloccata. Solo lo sguardo ha qualche sprazzo di vitalità. Dicono che senta tutto e voglia esprimrsi su tutto. Dicono anche che chiama spesso, di mattina presto, il novantenne Angelo Dundee e gli dice di voler allenarsi ancora. Dundee è in carrozzina per gli anni, Ali per il Parkinson. Quella boxe è scomparsa e non può ritornare più. The Greatest vive paralizzato e si fa vestire da Lonnie, la terza moglie. Da solo non si porta il cucchiaio alla bocca. Da più di trent’anni li non svolazza né punge.

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