Il mio amico Sic grande pilota e ragazzo felice

di Mauro Corno
Da quel maledetto 23 ottobre del 2011 Michele Fuzzi non guarda più una gara di moto. C’è da capirlo perché è stato uno dei migliori amici di Marco Simoncelli, il fenomenale pilota romagnolo morto sulla pista di Sepang per le conseguenze dell’incidente occorsogli mentre prendeva parte al Gran premio della Malesia, classe MotoGp. A Sic, dal giugno del 2012, è ufficialmente intitolato il circuito di Misano Adriatico che nel prossimo week-end ospiterà la tappa del Gp di San Marino e della Riviera di Rimini del Motomondiale. Con un altro carissimo amico in testa alla classifica della classe regina, Valentino Rossi.
«Non mi perdevo una corsa. Se Marco correva in Giappone o in Australia puntavo la sveglia, lo facevo solo per vedere lui, che fosse nelle 125, nelle 250 o nelle MotoGp. Non mi interessava altro, terminata la sua gara tornavo tranquillamente a dormire: la mia passione, insomma, era ad personam. E, chissà se per un caso, quella domenica stavo dormendo, anche se erano già passate le 10 del mattino. Ero in Spagna per motivi di studio. Mia madre mi ha telefonato e non sapeva come dirmelo. “Hai visto che Marco ha avuto un incidente?”. Ho acceso il computer, mi sono collegato su internet e mi è caduto il mondo addosso: la tragica notizia era in prima pagina ovunque e c’era anche quel bruttissimo fotogramma che è impossibile dimenticare. Ci ho messo ore e ore a metabolizzare, poi ho fatto i bagagli e sono tornato in Italia per partecipare al funerale».
Eravate coetanei…
«Siamo stati in classe insieme alle scuole elementari, alle medie e anche al liceo. Terminate le lezioni sono andato tantissime volte a casa sua a mangiare e a giocare, lo stesso faceva lui, in una divertente alternanza che ci faceva sempre sentire in famiglia ovunque fossimo: cercavamo anche di studiare…».
Lei è architetto, quindi ha un ottimo titolo di studio, ma se posso permettermi: non è facile immaginarvi chini sui libri, soprattutto da bambini…
«In effetti più che svolgere i compiti si rideva e si scherzava. Lui, poi, non stava mai fermo, era un moto perpetuo. Si divertiva un sacco a scarabocchiarmi il diario appena lo lasciavo incustodito o a nascondermi la gomma per cancellare. Ma, tra uno scherzetto e l’altro, pensava già in grande».
Ci può raccontare?
«Alla fine della scuola media i professori decisero che ognuno regalasse una sua fotografia, con dedica, ai compagni. “Un giorno diventerò world champion”, ha scritto Marco in una di queste. Per poi aggiungere, a voce, all’amico a cui l’aveva donata: “E vedrai quanti soldi ti daranno se la rivenderai: varrà tantissimo”. Era appena agli inizi della sua carriera, ma già vinceva. E ha sempre vinto, in qualsiasi categoria fosse impegnato. Non ho mai conosciuto nessuno che fosse competitivo quanto lui: anche a biliardino o carte doveva spuntarla, sennò un po’ si innervosiva. Del resto aveva il Dna del fuoriclasse».
Vinceva ma non è cambiato di una virgola.
«Ha sempre vissuto con semplicità, non faceva pesare a nessuno il suo status, neppure quando è diventato una star e appariva in continuazione in televisione. Ben presto hanno iniziato a riconoscerlo e non solo in centro a Riccione. Era quasi sorpreso di essere fermato per strada, di dovere firmare autografi e di posare per una fotografia con persone che fino a pochi minuti prima neppure conosceva. E c’erano anche tante belle ragazze che si complimentavano con lui per i suoi successi: roba da montarsi la testa. La sua forza era la normalità, grazie ai suoi genitori, che lo hanno sempre sostenuto, facendo tantissimi sacrifici, e che come lui sono sempre rimasti con i piedi per terra. Gli hanno sempre dato fiducia perché, al di là del talento, la meritava come ragazzo dal cuore d’oro. Anche se è naturale che, soprattutto la madre, un po’ di paura l’avesse, visto lo sport di cui stiamo parlando».
Era un ragazzo felice.
«Era un ragazzo molto felice, contento della sua vita, delle sue amicizie, della sua fidanzata, della sua famiglia. Lo facevano arrabbiare solamente le critiche ingiuste e le cattiverie: lo vedevi che faceva fatica a farsele scivolare via. Non gli piacevano i compromessi, si schermiva quando riceveva degli elogi, ed erano tantissimi, ma le malignità, per poche che fossero, lo colpivano davvero tanto».
Non aveva compromessi neanche nel modo di vestire.
«Possedeva un carattere e uno stile un po’ “campagnoli”, se così si possono definire. La comodità doveva venire prima di qualsiasi altra cosa. È capitato che si decidesse di passare la serata in un locale un po’ da “fighetti” e che lui, tranquillissimo, si presentasse all’appuntamento con la felpa al posto della camicia e le scarpe di gomma ai piedi. E che pochi secondi prima di varcare l’ingresso ci convincesse a cambiare programma per andare a giocare a pallone nel parcheggio. Non seguiva la moda e, come è facilmente immaginabile, non era neppure facile dirgli “no”. Ma in fondo tornare bambini, almeno per qualche minuto, era quello che volevamo tutti noi».
Adesso c’è una Onlus che porta il suo nome.
«Marco ne sarebbe orgogliosissimo, perché ha sempre fatto beneficenza. Per lui era normale aiutare chi stava peggio, ma lo faceva in silenzio, senza mettersi al centro dell’attenzione. È stato amato da vivo e ancora di più, forse, oggi che non c’è più. Ciò anche grazie a quello che hanno messo in piedi i suoi genitori e che, attraverso una serie di progetti umanitari, porta solidarietà a chi ne ha più bisogno, bambini e giovani in modo particolare».
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