Il piccolo esule che voleva essere un campione

Fuggito dall’Istria con la famiglia, a Lucca parcheggiava auto «Mi portarono a Monza e fantasticai su una mia vittoria. Poi...»
Di Luigi Spinosi

di Luigi Spinosi

Negli occhi si legge ancora l’incanto di un ragazzino che sogna di diventare un campione. Anche oggi che quel sogno ha rappresentato una realtà ed è più che un gran ricordo. Quello di un bambino che si incantava guardando, nei cinegiornali degli anni Cinquanta, le immagini di Juan Manuel Fangio e Alberto Ascari, i trionfatori della prima epoca della Formula 1; la realtà è stata la vittoria nel Mondiale 1978 di Formula 1, ciliegina sulla torta di una carriera straordinaria. Quel bambino sognante viveva allora con la sua famiglia in un campo profughi a Lucca, dove era arrivato dalla natìa Istria, dopo che la regione fu annessa alla Jugoslavia. E proprio a Lucca quel bambino scoprì quella che sarebbe diventata la sua ragione di vita, correre. Alla fine entrerà nella Hall of Fame dell’automobilismo con il proprio nome. Qual bambino diventato campione si chiama Mario Andretti.

A Lucca per ricevere la cittadinanza onoraria, in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli istriani, Andretti è apparso quasi sorpreso delle tante dimostrazioni di affetto, e alle quali non si è sottratto, anzi. La prima cosa che colpisce, incontrandolo, è la sua semplicità e la sua disponibilità ancora da ragazzino sognante.

Andretti, tutto è cominciato a Lucca.

«Già, proprio qui. Io e mio fratello gemello Aldo avevamo dieci, dodici anni, e abbiamo cominciato a guidare alla rimessa Biagini. Ci lasciavamo parcheggiare le macchine dei commercianti, dalle Topolino alle Lancia. È stato il mio primo allenamento per le partenze che poi avrei fatto in Formula 1».

Era un’epoca senza tv, forse con maggiore fascino.

«Quando ai cinegiornali passavano le notizie dello sport mi eccitava vedere le Ferrari, le Maserati. E poi i piloti, Farina, Fangio, e soprattutto Ascari, era lui il mio mito assoluto. Che sogno, pensavo, essere uno di loro».

Sembrava solo un sogno, poi i giochi della vita...

«La mia famiglia decise di accettare l’invito di un nostro zio a raggiungerlo negli Usa. Era il 16 giugno del 1955 quando la nostra nave passò sotto la Statua della Libertà. Era un giovedì, e già la domenica sera, da casa di mio zio, vedemmo queste luci in lontananza. Era una corsa di auto su terra. Io e mio fratello ci precipitammo subito a vedere. Eravamo appena arrivati, avevo visto la gara di Monza nel 1954, e nel 1955, poco prima di partire, mi avevano portato all’Abetone a vedere la Mille Miglia. Ma quelle auto parevano irraggiungibili. Invece in America anche noi potevamo provarci».

Come cominciò a correre?

«Nel 1957 io, Aldo, e altri amici abbiamo costruito un’auto per partecipare alle corse di dirt track e nel giro di un paio di anni abbiamo cominciato ad alternarci alla guida. Ma avevamo 19 anni, e all’epoca per gareggiare dovevamo averne almeno 21. Abbiamo truccato la data di nascita sulla patente».

I risultati sono arrivati subito, per lei e anche per suo fratello Aldo. Davate la paga a tanti piloti di esperienza.

«Una predisposizione naturale ma il destino non è stato benevolo con mio fratello: un terribile incidente, rimase in coma per due mesi e la sua carriera praticamente finì lì, anche se continuò a correre per altri 10 anni. Chissà, fosse andata in un altro modo avremmo potuto avere due Andretti in Formula 1. È anche una questione di fortuna. Anche con i miei figli: Michael ha avuto una bella carriera, mentre quella di Jeff è stata rovinata da un incidente a Indianapolis nel ’92».

Ha corso con tutte le auto: dalla Formula Indy alle gare di durata e alla Formula 1. E ha avuto a che fare con due leggende: il patron della Lotus Colin Chapman ed Enzo Ferrari.

«I più grandi di tutti. Con il Commendatore (io lo chiamavo così) non c’era bisogno di manager o avvocati, le trattative si facevano con lui, una cosa insolita in questo mondo. Ho corso per due stagioni con la Ferrari, nel 1971 e nel 1972. Ma avrei anche potuto tornare dopo la parentesi in Formula Indy».

E perché non è accaduto?

«Succedeva sempre qualcosa, quando c’era un posto libero in Ferrari io avevo già un accordo, o viceversa. Nel 1978, l’anno del Mondiale, ero a un passo dalla Rossa. Con Chapman mi ero già stretto la mano, quando il Commendatore mi chiamò a Maranello, per dirmi che mi avrebbe dato la prima guida. Gli dissi dell’accordo con Chapman. “Per questo abbiamo gli avvocati”, mi rispose. Sembrava fatta. Poi Chapman e Ferrari si parlarono. Non ho mai saputo cosa si dissero, ma dopo il Commendatore mi chiamò per dirmi “Mario, lascia stare”. Lì mi sono davvero incazzato».

Però non è andata male alla fine, visto che con la Lotus vinse il Mondiale.

«Sì, ma sono convinto che avrei potuto vincere anche con la Ferrari. Quella stagione lavorai molto sugli assetti, usando sistemi che lo stesso Chapman non ha mai saputo».

Quali sono i ricordi più forti di quegli anni?

«Soprattutto le persone. Vivevamo in un ambiente ristretto: piloti, meccanici, giornalisti... più che amici, una piccola famiglia. Il legame con Clay Ragazzoni e con Ronnie Peterson era molto forte».

Erano tempi migliori?

«Semplicemente i tempi cambiano e anche le corse, come ogni altra cosa, devono evolversi».

Quale vittoria ricorda con maggiore affetto?

(Qui sul volto e nei toni della voce si scorge ben più di un’emozione) «Monza, nel 1977, non ci sono dubbi, perché era la corsa che avevo visto quando avevo 14 anni. Ha sempre avuto un significato particolare quella pista, anche se la ricordo anche per la tragedia di Ronnie (nel 1978 Peterson perse la vita dopo un incidente, ndr)».

E la vittoria mancata?

«Monte Carlo. Lì mi sentivo molto a mio agio, anche se tutti dicevano che il circuito non era adatto a me. Non ho avuto fortuna, certe volte per problemi banali. Un anno, quando credevo di avere la vittoria in pugno, mi ritrovai a fare una doccia d’olio per un guasto al motore».

E a un ragazzo che volesse seguire le sue orme che consiglio darebbe?

«Mai scoraggiarsi. Ci saranno sempre molti ostacoli, ma non bisogna arrendersi e cercare di superarli. Ma questo vale per tutto nella vita, non solo per le corse».

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