La goriziana Miriam Sabot la prima fighter italiana sul ring della boxe birmana



Ci vuole tanto coraggio mescolato a una buona dose d’incoscienza per accettare di disputare un incontro di lethwei. E non solo perché nella boxe birmana si vince solo per ko. Ci vogliono coraggio e incoscienza soprattutto perché si tratta dell’arte marziale più violenta al mondo: si combatte senza guantoni e il regolamento permette di colpire l’avversario con le testate, oltre che con i pugni, i calci, le gomitate e le ginocchiate, come nella più nota muay-thai o boxe thailandese. Un affare per veri duri, dunque. E non è un caso che fino ad oggi nessun’atleta italiana fosse mai salita su un ring di questa disciplina. Fino ad oggi, però, perché la goriziana Miriam Sabot ha superato il muro invisibile e in Myanmar ha affrontato a Yangon, di fronte all’ambasciatrice italiana Alessandra Schiavo, l’idolo di casa Vo Ro Ni Ka (Veronika).

Miriam si è avvicinata alle arti marziali nel 2006 e, quando a Gorizia mise piede per la prima volta nella palestra del Team Satori, mai avrebbe pensato di combattere un match del genere nell’ex Birmania. Non a caso ne sentì parlare solo nel 2014, dopo essersi trasferita in Thailandia per lavoro. «Quando il mio caro amico Luca me ne accennò e mi fece vedere un video su YouTube, pensai che tutto ciò fosse particolarmente violento e insensato» racconta dopo il pareggio conquistato nel co-main event dell’Air Kbz Fight 6.

La sfida al limite dei 57 kg si è disputata nel chiassoso stadio Thein Phyu sulla distanza delle cinque riprese, ma per vincere bisognava mettere ko l’avversaria. Portare colpi buoni non bastava. Con le mani protette dalle sole fasciature, nel primo round Miriam avrebbe voluto studiare la situazione per prendere confidenza con le regole, ma la sua avversaria glielo ha impedito perché è partita come una furia sferrando testate e pugni a raffica. «Ho capito ben poco, ma ho assaggiato benissimo il sapore del lethwei» ricorda l’atleta goriziana. «Arrivata al mio angolo, ammetto di aver pensato ‘Ma perché diavolo sono qui?’, ma poi il pensiero è stato spazzato via dalla realtà del momento, dal ghiaccio che mi veniva versato addosso e dai consigli di Mam Supannee, la moglie del mio coach, il triestino Emmanuele Corti, e del cornermen».

Il secondo round è iniziato bene per l’italiana, che con un diretto destro al volto ha messo al tappeto l’avversaria. L’asiatica però si è subito rialzata e le due atlete hanno continuato a scambiare. «La mia avversaria, sfruttando il fatto di essere più bassa, riusciva a sferrarmi dei buoni colpi allo stomaco e cercava di colpirmi con le testate – nota Miriam Sabot -. Io la colpivo bene con il gancio sinistro in uscita, ma poche volte riuscivo a raddoppiare perché mi trovavo sempre fuori misura. Nel clinch avevo capito come bloccarle la testa e sentivo di essere nettamente superiore: le abbassavo il capo, ma anche in questo caso non riuscivo a concludere l’azione con una bella ginocchiata in faccia». Sfoderando anche un repertorio di calci frontali (uno è arrivato alla gola e uno in faccia) e di gomitate, Miriam non ha dimenticato di usare le testate. «Nel terzo round mi sentivo ormai molto più sicura, tant’è che iniziavo quasi a divertirmi», assicura la fighter goriziana ricordando che all’angolo le avevano detto di mollare se non se la fosse più sentita. Lei invece ha tenuto duro, è rimasta in piedi e, alla fine, ha conquistato un non scontato pareggio. «Di fronte alla nostra ambasciatrice non potevo certo fare figuracce» sorride soddisfatta mostrando l'ematoma sotto l’occhio sinistro come fosse una medaglia di guerra.—





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