La spedizione dei 500 verso il sogno chiamato A

Il nostro viaggio con la Curva Nord a bordo di uno dei bus partiti da Trieste «Siamo gli ambasciatori convocati a rappresentare una città intera»

Un viaggio che tutta la città aspettava da 14 anni. Sabato all’ora di pranzo, oltre 250 tifosi hanno preso d’assalto i pullman per raggiungere Casale Monferrato. Altri 250 si sono messi alla guida delle proprie vetture. Oltre sei ore di viaggio e più di 600 chilometri. Il Piccolo ha seguito l’esodo della Curva Nord salendo a bordo di uno dei torpedoni. Moltissime le eccezioni, un’unica regola: indossare qualcosa di rosso per colorare il “palazzo” piemontese.

«Seguiamo la pallacanestro dai primi anni Settanta – raccontano Mauro Della Venezia e Roberto Buchacher subito dopo esser partiti – e ne abbiamo viste di cotte e di crude. Speriamo vada bene, anche se credo la chiudiamo senza problemi». La signora Ada Kramar è una tifosa da sempre: «Ho iniziato quando ero piccola e non ho più smesso. Siamo una grande squadra, però ogni tanto ci addormentiamo». Ada tira fuori un panino con il formaggio, chiacchiera al telefono con amici e guarda con speranza fuori dal finestrino. «Vinciamo sicuro – conclude – e devo dire che questa società è stata veramente brava a credere in questo progetto».

A Cessalto arriva la prima sosta, il più classico degli autogrill, un caffè e pausa per andare al bagno. Il viaggio è una continua sovrapposizione tra il clima disteso di una gita da pranzo al sacco e la speranza di tornare a calcare i palcoscenici importanti. Si sfoglia la Settimana Enigmistica, si compra del ghiaccio in autogrill per tenere al fresco le birre che accompagnano il flusso biancorosso verso l’appuntamento più importante degli ultimi anni. Il risultato dei numerosi brindisi si manifesta in un coro, improvvisato dalla curva Nord alla vista di qualche decina di turisti giapponesi che escono improvvisamente dall’autogrill, in un’altra sosta. «An-to-nio Y-no-chi eh eh oh oh» risuona come il tributo ad una figura leggendaria del catch degli anni Settanta e fa sorridere buona parte della truppa, confermando la capacità camaleontica e creativa dei supporters.

Il luogo si avvicina e le sensazioni dei tifosi si fanno trasparenti, si inizia a delineare il momento tanto atteso, i battiti aumentano. In uno dei cinque pullman qualcuno ha portato un cotto in crosta ed è subito aria di casa. Il colore che i triestini si portano dietro emerge con forza quando un “mulo” scambia la curva per il carnevale ed è vestito con abiti femminili, molto succinti, che metterà in bella mostra anche a partita finita. Salta fuori un ombrellone, un materassino da bagno, magliette delle stagioni passate, sciarpe, una banana gonfiabile.

“La galina con due teste” diventa il facile motivetto con cui ricordare a tutti l’identità complessa, unica, di quel particolarismo triestino che vive anche a bordo dei pullman, sotto la pelle e la canotta di uomini simbolo come Daniele Cavaliero e Andrea Coronica, oggi nel ruolo di ultimi romantici della pallacanestro, depositari del testamento sportivo locale del ventunesimo secolo.

Si viaggia verso Ovest e il sole inizia lentamente a scendere all’orizzonte. La stessa linea dritta che i tifosi, raggruppati un’ultima volta prima di prendere l’uscita per raggiungere Casale, intravedono sempre più vicina, per poterla toccare con mano. «Bon muleria, monté su ’ste corriere e ’ndemo a ciorse ’sta coppa» urla Andrea Mariotti, leader e capo popolo della curva. I tifosi eseguono a memoria, quasi ad occhi chiusi, e dopo la scorta delle forze dell’ordine, il sesto uomo fa il suo ingresso al palazzetto piemontese. «I podeva anche tignir verte tutte e due le porte, no?» è il commento di chi abita in un palazzo di altre dimensioni e ha come angelo custode il principe Cesare Rubini nella sua casa appena rinominata Allianz Dome.

Parte L’Amour toujours di Gigi D’Agostino con il tormentone «forse chissà, succederà, canta con noi che torniamo in serie A». La curva si colora di rosso e le mani sudano, il pallone inizia a far rumore sul parquet, i tifosi osservano il destino della squadra e vestono i panni degli ambasciatori convocati a rappresentare una città intera. La speaker di Casale chiama le squadre sul campo, la temperatura sale vertiginosamente, la fronte dei tifosi fa i conti con le perplessità e il timore – umano – di sbagliare qualcosa, proprio lì, ad un passo dal Paradiso.

L’inizio di Casale è deciso, poi Cavaliero – così come per tutta la durata del match – decide di mantenere la promessa fatta l’anno scorso sintetizzabile grazie alla conosciuta espressione triestina “cantar e portar Cristo”. La partita scivola via così, con l’unico sussulto per i padroni di casa che si portano sul 57 a 55 ma che vengono rimessi al loro posto e superati immediatamente. Può così iniziare una festa che Trieste attendeva da quasi 15 anni. Da qualche parte è stato scritto che «nella mia vita ho viaggiato ma l’unica cosa che ho fatto è stata tornare a casa». E casa, da oggi, si chiama A1.

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