Meneghin, il mito «Non sono vecchio Il basket la mia vita»

L’intervista
Stasera al Forum di Assago, in occasione del 9º turno di Eurolega contro il Maccabi Tel Aviv, l’Olimpia Milano ritirerà la maglia numero 11 di Dino Meneghin, che non potrà mai più essere indossata da nessun giocatore della prima squadra biancorossa.
Un omaggio a uno dei simboli dell’Olimpia, con cui conquistò 5 scudetti, 2 Coppe Campiomi, una Korac, una Coppa intercontinentale e il Grande Slam nel 1987.
Dino, l’Olimpia ritira il suo glorioso numero 11. Perché aveva scelto l’11?
«Quando a 16 anni arrivai all’Ignis Varese, dall’altra squadra cittadina Robur et Fides, se n’era appena andato l’americano Kimball che aveva quel numero. Ero giovane e non è che potessi discutere tanto. Ma poi a Milano lo tenni anche quando arrivò una star come Bob McAdoo, che l’aveva avuto per 14 anni nella Nba. E mi accorsi che avevano l’11 anche grandi centri come lo jugoslavo Cosic, il russo Tkacenko, il bulgaro Golomev, il ceko Zidek».
Perché questa cerimonia nel match col Maccabi?
«Perché sono molto legato al Maccabi, contro di loro vinsi il mio primo trofeo europeo, la Coppa Coppe 1967, in maglia Ignis Varese. E ho ancora tanti amici del Maccabi, come Miky Berkowitz. Quando ne celebrarono il ritiro mi invitarono con un gruppo di vecchie glorie: mi lasciarono entrare in campo per ultimo e ricevetti un’ovazione pazzesca, la porto nel cuore».
Si sente un monumento?
«No, per favore, sui monumenti gli uccelli ci fanno i loro bisogni. Ho soltanto fatto sempre la cosa che più mi piaceva. Ma questa onorificenza è importante come il mio ingresso nella Hall of Fame».
Milano ora la osanna, ma quando arrivò da Varese...
«Molti tifosi protestarono perché ero l’odiato rivale, il grande nemico di tante sfide scudetto Varese-Milano. Poi mi feci subito male a un ginocchio, avevo già 31 anni, e pensarono che fossi marcio. Fu come se oggi Messi passasse dal Barcellona a Real Madrid. All’inizio non fu facile».
Ricorda il debutto con la maglia di Milano?
«A Rieti. Nella prima azione in difesa, prendo un rimbalzo e sento dire “Bravo Dino!”. Era Brunamonti, il play di Rieti e mio amico: mi volle incoraggiare così perché ero al rientro dopo tanto tempo. Gli avversari sul campo li consideri nemici, ma spesso scopri persone straordinarie».
Quando la situazione si sbloccò con i tifosi?
«Al mio primo anno a Milano vincemmo subito lo scudetto, contro Pesaro, e lì finalmente mi sentii accettato da tutti. All’Olimpia negli anni trovai grandi campioni come D’Antoni, Gianelli, Premier, con cui legai fuori dal campo come a Varese era successo con Bisson, Zanatta, Morse».
Un momento brutto?
«A parte i tanti infortuni, per i quali mi chiamavano Dottor Gibaud, rimpiango la finale di Coppa Campioni 1983 persa a Grenoble contro Cantù: giocai malissimo e non feci un punto, la partita più brutta della mia carriera».
Una cosa che farebbe in modo diverso?
«Starei più vicino a mio figlio Andrea, avrei potuto e dovuto essere più presente quando era piccolo. Lui però dice che adesso sono un buon nonno, il che un po’ mi consola».
Ci sarà mai un altro Meneghin sul parquet?
«Le due figlie di Andrea giocano a basket, e anche mio nipote Bruno, figlio di mio fratello Renzo. Chissà».
Ha retto fino a 44 anni.
«Dan Peterson mi ha allungato la carriera. Prima di me si smetteva a 30 anni, in fondo sono stato un precursore».
Il segreto della sua fama?
«Ho giocato tanto e con grandissime squadre come Varese, Milano e la Nazionale».
Il basket di oggi le piace?
«Insomma... Troppo pick and roll e tiro da 3, poi non mi piace quando il play ferma troppo la palla come fa James Harden. Ai miei tempi c’era più varietà anche se il gioco “L” di Milano, con me e D’Antoni, era simile al pick and roll. Però si faceva anche tanto altro».
Ci sarebbe posto oggi sul parquet per Dino Meneghin?
«Mi divertirei anch’io a tirare da tre, mica starei sempre là sotto a prendere botte».
Fra un paio di mesi di avrà 70 anni: paura di invecchiare?
«No. Faccio gli scongiuri e non ci penso. Se il buon Dio mi mantiene in buona salute ho ancora cose da fare».
Per esempio?
«C’è un progetto internazionale, non voglio anticipare nulla, ma sempre nel basket che resterà per sempre la mia vita». —
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