Mian: «Ecco il mio basket passione allo stato puro»

GORIZIA. Era il 3 gennaio 1999, cestisticamente parlando una vita fa. Sdag Gorizia-Kinder Virtus Bologna 67-64. Non il canto del cigno di Gorizia su un campo di basket (all’ultima di campionato arrivò anche il 65-63 alla Benetton Treviso), ma quel successo sulla Virtus che a fine stagione avrebbe vinto lo scudetto è ancora negli occhi e nel cuore di tanti, tantissimi baskettomani goriziani: sarà stato il fascino delle V nere, sarà stato il clima di quei giorni di vacanza e lo spirito che si respirava quel giorno al palasport, chissà...Da una parte, con Messina in panca, gente come Danilovic, Rigaudeau, Sconochini, Gus Binelli, Abbio o Crippa. Dall’altra, guidati da Tonino Zorzi (contro la Benetton ci sarebbe stato invece Franco Ciani), Tonut, Pol Bodetto, Timinskas, Stazic (Bazerevich sarebbe arrivato di lì a poco). E poi...E poi “abbiamo un giocatore da portare in Nazional, Michi Mian-Michi Mian” come cantava il palasport. Michele Mian, ovvero il ragazzo di casa, classe 1973, da Aquileia a Gorizia per studiare alle superiori e giocare a basket, con giusto una pausa a ora di pranzo per mangiare qualcosa al “Cavallino”, la trattoria allora gestita da Guido Malfatti, in fondo a via XXIV Maggio. Michi Mian che in Nazionale non solo ci è arrivato davvero (anzi, in quel 1999 ne faceva già parte...) ma ha anche vinto tanto (argento olimpico ad Atene 2004, oro europeo a Francia 1999 e bronzo europeo a Svezia 2003). Michele Mian che però con i giornalisti ha sempre parlato poco. Anzi, almeno finche è rimasto a Gorizia, nulla.
Michele Mian, mi tolga subito questa curiosità: ma perché non parlava con noi giornalisti, cosa le avevamo fatto?
Niente, per carità. Era così, un po’ per carattere, un po’ perché poi volevo che a parlare fosse il campo, volevo essere apprezzato non per quello che magari dicevo ma per quello che facevo sul parquet. Poi si cresce, si cambia.
Alla fine di quella stagione i diritti dell’A1 di Gorizia furono venduti a Pesaro. E a Pesaro, finiste anche lei e Pecile. Poi, le maglie di Udine, Rieti, Veroli e Cantù. Di quale di queste piazze ha i ricordi più vividi?
A parte Pesaro, tutte le altre destinazioni lo ho sempre scelte io. E ovunque mi sono trovato molto bene: certo, però, Rieti e Cantù sono due state due esperienze molto forti, piazze dove si respira basket tutti i giorni della settimana, dove c’è grande entusiasmo. Ricordo che andare al Pianella da avversario era sempre difficile: giocare con la maglia di Cantù su quel campo invece era straordinario, bellissimo.
E poi sette anni di Nazionale e due Olimpiadi...
Ad Atene abbiamo vinto l’argento, ma Sydney, quattro anni prima, è stata magica: la prima Olimpiade non si scorda mai. La vita al Villaggio, andare alla mensa e trovarsi con altri atleti di tutto il mondo e di tutti gli sport, la sfilata inaugurale... Ecco, lì, alla sfilata inaugurale credo che sono andato fuori di testa!
Lei poi si è sempre guadagnato sul campo le convocazioni con grande determinazione.
È vero, nessuno mi ha mai regalato nulla. Nei raduni prima di ogni grande manifestazione il primo candidato al taglio ero sempre io. E invece poi mi sono spesso ritagliato un posticino per esserci alle manifestazioni che contano.
A quale tecnico si sente più riconoscente?
Innanzitutto a Tanjevic, mio allenatore in Nazionale: il primo a credere in me a certi livelli. Con lui non mi serviva parlare tanto, era sufficiente uno sguardo e ci si intendeva al volo. Poco tempo fa lui parlava di me e mi ha definito un “suo” giocatore: ne sono stato molto orgoglioso. Ma non posso non citare anche Fabrizio Frates: mi ha fatto crescere tantissimo allenandomi a Gorizia.
Il basket è sempre stato la sua passione?
Avevo iniziato con il minibasket ad Aquileia a 6 anni, ma avevo subito mollato. Non mi piaceva. E allora sono andato a giocare a calcio, portiere. Fino ai 10 anni, poi ho riscoperto il basket. E non l’ho più lasciato.
Quanto ha capito che per lei il basket non era solo passione ma anche un lavoro?
Non ho mai voluto sentirmi un giocatore di basket e basta. Anche finite le superiori, e già giocavo in prima squadra, sentirmi “solo” un cestista lo ritenevo riduttivo e per questo mi sono iscritto all’Università (Filosofia, a Trieste). Ecco, forse quando poi mi sono laureato ho iniziato a vivere anche il basket in maniera diversa. Ma io ero sempre quello che nei momenti liberi andava a giocare al campetto. E volevo continuare a essere quel ragazzo lì.
Ha due figli, peraltro ancora piccoli: ha trasmesso loro il virus del basket?
Il più grande gioca nel Dom, ma sono liberi di scegliere di fare lo sport che vogliono: non sono un genitore che mette pressione. A casa poi si vede anche, tutto sommato, poco basket alla tv: a me è sempre piaciuto più giocarlo che vederlo. E così se con i miei figli si decide di andare al campetto non mi tiro certo indietro!
Ma come giudica il basket di oggi?
Già nel 2003 dissi a coach Recalcati: questo basket sta diventando troppo fisico, non mi piace. Lui invece sosteneva che presto si sarebbe raggiunto un equilibrio tra tecnica e fisicità: secondo me non ci siamo ancora.
Lei oggi ha una scuola di minibasket a Udine.
E’ un’attività bellissima. I bambini giocano per il piacere di giocare, i miei collaboratori tecnici sono tutti sintonizzati su questa lunghezza d’onda e anche i genitori sono coinvolti nel modo giusto. Perché non l’ho aperta a Gorizia? Qua collaboravo già con alcune società, non mi sembrava corretto varare un progetto di questo tipo in città. E allora sono andato a farlo a Udine.
Quando passa davanti al palasport di via delle Grappate cosa pensa?
Quando furono venduti i diritti a Pesaro ci rimasi malissimo, da morire: quel palazzetto era la mia casa. Oggi invece dico che si deve comunque ringraziare chi ci permise di vivere quell’ultima meravigliosa stagione in A1. Certo, il rammarico è rimasto ed è sempre forte. Io poi ho sempre pensato che in quel momento sarebbe stata vincente la proposta di creare una squadra regionale: c’erano gli imprenditori pronti a investire in un progetto di questo tipo, c’era un forte bacino regionale di giocatori, c’erano i tecnici. E le vittorie avrebbero cancellato ogni forma di campanilismo, credetemi. Si sarebbe potuto creare un modello nuovo e diverso. Soprattutto, vincente. E invece, niente.
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