Addio al farmacista di Panzano Una vita per il lavoro e la musica

Riccardo Fabris, 69 anni, è stato trovato nel giardino della sua villa, in via Verdi alle 9.30 di ieri mattina. S’è lasciato andare dalla terrazza retrostante. Quando i sanitari sono giunti all’abitazione, era ancora vivo. Hanno fatto il possibile per strapparlo alla morte. Ma non c’è stato nulla da fare.
Riccardo Fabris era molto conosciuto, stimato e benvoluto. Viveva con la madre, di 92 anni.
Aveva gestito la storica farmacia di Panzano, di fronte allo Stadio Cosulich, ereditata dal padre. Un grande lavoratore. Tanti se lo ricordano, dietro il banco con il camice bianco. Una professionalità spiccata, sempre pronto a dare un aiuto, un consiglio, un parere. Perché di medicina ne masticava. Era più di un farmacista, mettendosi sempre a disposizione di clienti e amici. Non è facile spiegare chi era Riccardo Fabris. Nel suo Dna “pulsava” la musica, la vera passione, l’essenza del suo animo, buono e sensibile. L’arte musicale rappresentava la luce di una vita purtroppo adombrata da fasi depressive altalenanti, che lo mettevano a dura prova. Dai “momenti bui” comunque ne era risalito, portando tuttavia i segni di quelle penose ferite interiori. Ferite dolorose. Era come se lo allontanassero da se stesso, impedendogli di comprendere il valore della sua ricchezza umana e intellettuale. Una profondità intellettuale che, unita ad una particolare versatilità, ne facevano un uomo “affamato” di conoscenza, quella appresa con umiltà, mai ostentata. Come mai ostentata era la sua posizione agiata. Amava le moto e le auto.
La passione per la musica l’aveva mutuata dal nonno, Mafaldo Debiasi, compositore, direttore di orchestra, direttore di pianoforte. Era stato il nonno a regalare alla città l’inno “Viva la Roca de Monfalcon”.
Per Riccardo le note erano il suo spirito interiore. I tasti del pianoforte e dell’organo rappresentavano le sua “voce” interiore, coltivata da autodidatta, ma anche attraverso studi di alto livello al conservatorio.
C’è chi ha ricordato: «Suonava l’organo in Duomo divinamente».
Aveva composto diversi brani, raccolti anche in Cd. Ispirato dai grandi dei primi anni del ’900. Debussy, Ravel. Ma anche Bach. E Wagner. Non c’erano confini quando si trattava di spartiti, di tecnica e di storia della musica.
Da giovane era stato un provetto tennista. Dolce, gentile, educato, colto, disponibile. Il ceto sociale non era motivo di sfoggio. Anche per questo aveva molti amici.
Luigi Andrea Gigante, sette tra lauree e diplomi, direttore di orchestra, compositore, direttore didattico e professore di armonia, contrappunto, fuga e composizione, una lunga sequela di incarichi universitari, tra cui l’insegnamento all’Università pontificia del Vaticano, lo ha ricordato con un filo di voce: «Questa disgrazia mi ha lasciato senza fiato. È come se fosse accaduto a mio figlio. Era una delle persone più buone che abbia mai conosciuto. Aveva un notevole talento musicale, un genio, versatile. Lo conobbi quando dirigevo il conservatorio Tartini di Trieste. L’arte della musica sarebbe dovuta essere la strada della sua vita».
Laura Borsani
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