Amanda Knox Story. Romio: "Che fatica interpretare Sollecito"

Parla l'attore veneto che nella fiction (in onda il 21 febbraio negli Stati Uniti) interpreta lo studente pugliese. "Le scene shock del delitto - racconta - non sono il fulcro del film, che comunque lascia molti interrogativi aperti"
La sua somiglianza con Raffaele Sollecito è addirittura più marcata di quella di Hayden Panettiere con Amanda Knox. Nelle immagini del film tv ”Amanda Knox Story” sull’omicidio di Meredith Kercher - che il 21 febbraio, negli Stati Uniti, il canale Lifetime lancerà fra le critiche - lo abbiamo visto mille volte: sempre accanto ad Amanda e sempre con gli occhi da innamorato. Una copia fedele del Sollecito apparso nei telegiornali del primo novembre 2007, davanti alla casa di Perugia dove la studentessa britannica è stata uccisa.

Per la prima volta parla Paolo Romio, l’attore veneto che nella discussa fiction tv americana, diretta dal regista Robert Dornhelm, interpreta lo studente pugliese accusato, assieme ad Amanda Knox e Rudy Guede, dell’assassinio di Meredith. È originario di Malo (Vicenza), si è laureato in Lingue e Letterature Straniere a Ca’ Foscari (Venezia) e si è già fatto conoscere per la sua partecipazione alla fiction Rai ”La città dei Matti”, ispirata alla vita di Franco Basaglia.


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Al ”Piccolo”, in anteprima, racconta di come ha vissuto il suo lavoro sul set, nei panni di uno studente accusato di un delitto per il quale è ancora in corso il processo d’appello.


Non deve essere stato facile...
«Diciamo che è stata un’esperienza intensa. Non solo professionale, ma anche umana».


Ha visto il film?

«A dire il vero no, e sono molto curioso».


Negli Usa debutterà fra un oceano di critiche, a quanto pare. Come ci si sente a essere nell’occhio del ciclone?
«Io sento solo di avere fatto il mio lavoro. Mi è stato affidato un personaggio reale da interpretare e spero di averlo fatto al meglio. Certo non è stata una passeggiata: qui si mette in scena una vicenda controversa che ha tolto la vita a una persona».


Il film prende posizioni sugli accusati?
«Non ne ho la più pallida idea. Tutto dipende da come le scene sono state montate: è il sarto che cuce il vestito. Le luci, le inquadrature, il montaggio fanno tutto in un film. Bisogna aspettare di vederlo prima di esprimere giudizi. Quello che posso dire è che regia e produzione hanno sempre puntato all’equilibrio e al rispetto di tutte le persone coinvolte».


Però la scena del delitto sembra piuttosto efferata...
«Ripeto: prima di giudicare devo vedere. Ero completamente preso dalla confusione che tutt’ora, nella realtà dei fatti, aleggia intorno a quei minuti. La scena, probabilmente, trasmetterà proprio questo caos, ma è sbagliato considerarla il fulcro del film: non lo è. Le versioni dell’accaduto, infatti, sono molteplici».


Ovvero?
«Non ce n’è solo una, si prendono in considerazione tutte le posizioni, sia dell’accusa sia della difesa. Per questo c’è equilibrio. Non è affatto un film sul delitto, ma su tutto quello che ci sta e c’è stato attorno».


Dunque, su cosa esattamente?
«Ci sono le storie di studenti universitari che prima avevano una vita e ora sono in carcere. Ci sono droga, sesso e rock and roll, naturalmente, ma soprattutto la loro umanità. C’è la morte di una ragazza e ci sono punti di domanda che rimangono in sospeso».


La scene più complicate quali sono state per lei?
«Quella degli interrogatori. Angoscianti, direi. Essere giudicati in tribunale deve essere un’esperienza pazzesca: la tua vita è appesa alle parole».


Ha mai incontrato Sollecito di persona?
«No, mai. Non c’è stato né modo né tempo di farlo. L’ho ”studiato” guardando servizi e documetari che sono usciti sulla vicenda, ho navigato sui blog che amici e parenti gli hanno dedicato. D’altronde, è proprio su queste immagini che si basa il film».


Cioè?
«Punta sui particolari che gli spettatori hanno conosciuto all’epoca della vicenda. È un calco di quello che abbiamo visto nei telegiornali e che fanno parte di quella sorta di fiction che è nata in tv ben prima di questo film».


In che senso?
«Anche i telegiornali si sono soffermati sulla sciarpetta gialla di lui, il giubbotto militare di lei, o il suo maglioncino blu nei giorni del processo. Sono particolari che hanno già stimolato l’affezione del pubblico verso l’assurdità e la complessità del delitto di Perugia, che coinvolge ragazzi giovani, studenti».


Con qualche stranezza nascosta?
«Questo non lo posso dire, non lo so e non mi interessa. Io ho cercato di entrare nella vita di Raffaele, nata nella profonda Puglia. Ho scoperto che ha perso la mamma quando era piccolo, che aveva una passione per i coltelli e che era anche un giovane innamorato, forse disposto a tutto per amore.Io, nel film, ho vissuto una storia d’amore e mi sono lasciato guidare».


Complice anche la sintonia con Amanda Knox-Hayden Panettiere?
«Certo. Ci siamo trovati molto bene sul set, e per me è stato un grande onore lavorare con lei. Complice anche la squadra italo-americana che sta dietro alla realizzazione del film. Ci hanno lavorato fior fior di professionisti italiani: Roy Bava, aiuto regia, i maestri Murizio Silvi e Francesco Nardi, truccatore, Giorgio Gregorini, maestro delle parrucche di Hayden (ha sempre la parrucca!), Gian Enrico Bianchi, direttore della fotografica e l’aiuto regista Franco Basaglia».


Un nome noto per lei, è il nipote del suo celebre omonimo...
«Certo, l’esperienza della fiction su Basaglia è stata fondamentale come preparazione a questo film. Solo poco più di anno fa ero sul set proprio a Trieste».


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