Boncinelli: «Volevo fare il cantautore»

di Cristina Serra
Un disadattato, ma dotato. Uno che fa quel che può, ma che oltre un certo limite non ci arriva. Un vinto. Timido e goffo. Queste sono le immagini di sé che Edoardo Boncinelli ci regala nell’overture del suo ultimo libro, un’autobiografia appena uscita per i tipi della Rizzoli, intitolata Una sola vita non basta. Storia di un incapace di genio (Rizzoli, pp. 421, 19 euro).
Boncinelli, fisico e genetista nonché docente alla facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, smette per una volta il camice del ricercatore per indossare i panni … di se stesso. In più di 400 pagine ripercorre la propria vita, dall’infanzia malinconica, alle scelte professionali. Dall’incontro – alla Fantozzi - con la donna della sua vita, alla passione per i componimenti poetici, fino ai sogni segreti cui, finora, ben pochi avevano avuto accesso.
Chi conosce il Boncinelli genetista non potrà non rimanere stupito e affascinato dalla schiettezza con cui “Dado” (così per gli amici) si mette a nudo, raccontando episodi molto intimi della propria vita: il tormentato rapporto con il padre; l’appassionato amore per Angela; l’incidente al figlio Francesco; episodi significativi della sua vita professionale, che ha vissuto a Trieste una tappa ricca di calore umano, più che di successi professionali. L’abbiamo raggiunto telefonicamente a bordo piscina, in quel di Sarzana, mentre attendeva di partecipare al Festival della mente, conclusosi il 1 settembre. Ecco come si è raccontato di persona.
Professor Boncinelli perché, dopo tanti libri di scienza, un libro sulla sua vita?
«Erano in tanti a chiedermi un’autobiografia, da almeno 15 anni. Ma allora ero sulla sessantina, dunque troppo giovane. Oggi ho passato i settanta e ho qualcosa in più da raccontare. Così ho fatto un viaggio retrospettivo alla riscoperta di me stesso, facendo affiorare ricordi dimenticati e sensazioni sopite».
Uno strano sottotitolo, questo, che accenna alla sua presunta incapacità. Un modo per farsi amare dal pubblico o una confessione genuina?
«Non cerco di blandire il lettore facendolo intenerire. Quel che racconto di me – la cecità all’occhio sinistro, l’asimmetria della mandibola, un corpo che non mi ha mai dato soddisfazione e che non ne voleva sapere di ubbidirmi e di rendermi uguale agli altri ragazzini – sono limiti che mi hanno accompagnato sin dalla nascita e di cui ho sofferto molto. Non ero agile, non ero coordinato e i ragazzini che, si sa, sanno essere crudeli, non me la facevano passare liscia. Incapace è l’aggettivo che meglio mi sembra possa definirmi, o che per lo meno riflette come io mi sento: assai poco capace in moltissimi settori della vita».
Lei ha trascorso la primissima infanzia con gli zii e i primi anni di scuola in diverse città. Questo continuo andare le ha cucito addosso una sorta di malinconia che ancora traspare…
«È vero, anche se degli anni trascorsi con gli zii ho dei ricordi bellissimi. La malinconia deriva in parte dal mio fisico poco dinamico e dal rapporto difficile con i coetanei e in famiglia. Per fortuna. ho scoperto la lettura, fin da piccolo, e i libri sono stati i miei fidi compagni di viaggio».
Della famiglia lei ricorda una figura paterna distante, con cui non c’è mai stato un rapporto sereno. Ci sarà qualcosa di bello che associa a suo padre?
«Ahimè no. Mio padre aveva la capacità di mettermi a disagio, facendomi sentire un buono a nulla. Era una persona squilibrata e imprevedibile che destabilizzava gli altri. Per fortuna c’era mia madre…».
Figura forte e positiva. Ma c’era anche suo fratello Vieri: che ruolo ha avuto nella sua infanzia?
«Mio fratello è sempre stato una figura di riferimento per me, assiduamente presente nei primi 30 anni della mia vita. Oggi ci sentiamo raramente, ma abbiamo un rapporto assai solido e solidale: di recente siamo anche stati a Rodi assieme».
Nel libro lei si definisce un disadattato, uno che teme di esporsi. Non è un po’ l’esatto contrario di come dovrebbe essere uno scienziato?
«Continuo a sentirmi un disadattato anche se certi aspetti della mia vita mostrano un quadro diverso. Quanto alla paura di espormi, vale soprattutto per l’esposizione orale. Sono molto più a mio agio a scrivere e trovo che i miei scritti siano una delle mie forze».
Lei si è espresso anche attraverso la poesia…
«Ho scritto molte poesie improntate a una libertà estrema: a ispirarle sono stati gli eventi più diversi, come una conferenza, un libro, una conoscenza nuova, i figli. Poesie surreali, naturalistiche, che hanno trovato la via di casa in particolare nel 2010, anno in cui ne ho scritte tante. La poesia era per me il linguaggio con cui elaboravo pensieri ed esperienze. In quell’anno ho prodotto il Poema cosmologico, che considero l’opera in cui è racchiuso tutto di me e che spero di pubblicare presto».
Angela è il grande amore della sua vita. Il primo appuntamento, però, è stato un clamoroso fallimento...
«Eravamo a una riunione a casa di amici, e lei mi chiese se volevo andare a mangiare un gelato assieme, finita la riunione. Io dissi di sì, ma una volta in strada e salito in macchina mi diressi verso casa, andai a letto e mi misi a leggere Fantozzi, totalmente dimentico della proposta. Quando me ne resi conto, all’improvviso, avrei voluto morire. Angela ancora cita questo episodio come simbolo della sua tenacia, e ormai ne ridiamo serenamente assieme».
Lei nasce fisico, ma poi abdica in favore della biologia. Ha qualche rimpianto verso la fisica o qualche sogno incompiuto in biologia?
«Per la fisica provo un grande affetto, come per gli amori naturalmente finiti. Quanto alla biologia, ho avuto una grande fortuna: quella di essere vissuto negli anni ruggenti delle grandi scoperte biologiche, dei cambi di paradigma che hanno portato alla nascita e allo sviluppo della biologia molecolare. Ho iniziato a studiare i batteri e sono approdato al cervello. E poi ho fatto delle scoperte che ancora oggi sono ricordate nei libri di testo. Come non essere pago?».
Se non avesse fatto lo scienziato, che cosa avrebbe voluto essere?
«Questo è un mio sogno, non più tanto segreto. Mi sarebbe piaciuto molto fare il cantautore, ma evidentemente non ho mai avuto le doti necessarie».
Nel ’54 lei è venuto per la prima volta a Trieste, senza immaginare che ci sarebbe tornato da scienziato, dal 2001 al 2004. Che cosa ha portato con sé di Trieste?
«Tanto, soprattutto dal punto di vista degli affetti: veniamo a Trieste una volta al mese per vedere i molti amici che ci siamo fatti nel periodo in cui ho lavorato qui. Ma soprattutto… Angela deve venire dal parrucchiere, così la puntatina a nord-est è ormai entrata nella nostra routine mensile».
Se si guarda indietro, che cosa vede: sempre un incapace?
«Vedo un incapace che per qualche strano scherzo del destino è riuscito a fare qualcosa nella sua vita».
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