BRUNETTA, BASTONE E CAROTA

Il neoministro Brunetta, all’immancabile appuntamento con Vespa a Porta a Porta, ha annunciato la sua ricetta per rimettere ordine (?) nella pubblica amministrazione. Laconicamente, ma anche draconicamente, ha sentenziato che bisogna usare il bastone e la carota. Fuor di metafora bisogna punire e premiare! Dunque nella semplificazione del ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione viene prima la punizione poi il premio, o contestualmente?


Aldilà del simbolismo dei due strumenti, oggetti analoghi solo per forma fisica, non per modalità d’uso, va stabilito un ordine di applicazione: non è irrilevante stabilire se sia più efficace prima premiare, come indica la letteratura scientifica di derivazione psicologica sulla funzione del rinforzo, e poi utilizzare la punizione come soluzione estrema. Il premio infatti rinforza le cose buone che l’essere umano compie, la punizione provoca reazioni più complesse e la forza inibente può innescare meccanismi pericolosi. Questo dunque è ciò che si sa, in scienza.


In coscienza, politica nel caso di Brunetta, si tratta di passare dal piano basso della semplificazione al piano alto della complessità, inevitabile, come sempre accade nei fenomeni psicologici e sociali, che poi infine divengono anche oggetto di riflessione per gli uomini politici. Innanzitutto va affrontato il delicato problema della valutazione: a nessuno, si sa, piace essere valutato soprattutto quando il giudizio è imposto, calato dall’alto come una spada di Damocle che taglia teste, mani, piedi, insomma che riduce i margini di libertà con la scure. La valutazione collide inevitabilmente con i diritti dilatati e considerati inviolabili, anche quando sembra del tutto legittima, condivisibile ed equa come la valutazione del merito, che viene considerata erroneamente la valutazione per antonomasia.


Va ricordato, invece, che esistono modalità di valutazione, che possono ricomprendere la rilevazione delle competenze, del potenziale, la diagnosi del contesto organizzativo e delle sue componenti ergonomiche, che permettono di gettare luce sulla configurazione culturale delle strutture amministrative, ricomprendendo la valutazione del merito senza per questo porla necessariamente al centro della questione. Dunque dichiarare con quale modello di valutazione si vuol intervenire per bastonare non sembra secondario: da esso infatti discende o dovrebbe discendere, per logica intrinseca, il sistema premiante, coerente con il significato etimologico del premio, alias carota nel linguaggio del ministro.


Ci si aspetta, ma non si dubita da un uomo di accademia come Brunetta, che il ministro voglia fornire le specifiche, almeno in termini generali, dell’intervento di conversione della gestione delle risorse umane nella pubblica amministrazione. Inoltre è impensabile calare dall’alto un sistema di valutazione delle persone che produce inevitabilmente effetti sulla cultura organizzativa, non prevedendo interventi di formazione e comunicazione per realizzare un progetto che, senza buoni margini di condivisione, rischia inevitabilmente di fallire, creando una pericolosa spirale di spinte e controspinte difficilmente controllabili.


Al di là delle norme giuslavoristiche, che andrebbero rivisitate correttamente con l’idea gestionale che si vuol realizzare, non va sottovalutato il ruolo del sindacato in una impresa come questa. Il negoziato con il sindacato diventa cruciale soprattutto se il quadro legislativo non muta. Le rappresentanze sindacali, se incluse come protagoniste del cambiamento, possono garantire quella trasparenza di metodo che è ineludibile in un ambiente dove le spinte corporative hanno il potere di far abortire ogni iniziativa.


Proprio nel settore del pubblico impiego potrà misurarsi la duttilità del sindacato e la sua indipendenza politica, unite alla responsabilità non solo rivendicativo-salariale e protettiva di chi è dentro, ma anche finalizzata alla difesa degli interessi degli esclusi, precari ai vari livelli di precarietà, oltre che dell’interesse dell’intera comunità.


La giustizia organizzativa non solo retributiva è uno dei principali indicatori di clima che, per la sua caratteristica di repentina mutevolezza, può determinare quote di benessere o di malessere nelle organizzazioni. Solo in un quadro costruttivamente orientato alle buone relazioni si realizzerà quella metamorfosi che il Paese attende ormai da decenni, sempre sacrificata sull’altare dell’interesse elettorale. Con i margini di consenso di cui gode l’attuale governo, operazioni come queste si possono senz’altro fare, purché la carota venga percepita prima del bastone.

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