Casoni di Turriaco Pieris, Staranzano e Monfalcone: tracce di antichi lazzaretti

la storia
Via Marco Polo è la strada che congiunge Pieris a Begliano. Si alternano case popolari, palazzine, villini, edifici rurali, un paio di aziende. Google maps consente di individuare almeno due ville con piscina. La strada di circa tre chilometri è immersa nel verde. Viene da dire luogo ameno. Se all’aggettivo togliamo l’ultima vocale ne esce un amen. E di amen, nei tempi antichi, l’attuale via Marco Polo ne deve aver sentito parecchi. Lungo quella strada di campagna, tra i primi e la seconda metà dell’Ottocento, era allestito uno dei tanti “lazareti” di cui era disseminata anche la Bisiacaria. Il colera soprattutto mieteva centinaia di vittime. I “positivi” erano rinchiusi nei lazzaretti. La maggior parte di loro ne usciva con “i piedi per davanti”. In via Marco Polo, oggi trasformate in linde casette, si possono ancora scorgere le antiche baracche degli sfollati della Grande Guerra eredi dell’antico lazzaretto. Sarà un caso se non lontano da via Marco Polo c’è il cimitero di San Canzian. E sarà sempre un caso che vicino al vecchio cimitero c’era il lazzaretto di Staranzano. Lo stesso discorso di via Polo vale per le casette sorte nell’avvallamento di via Filzi; depressione descritta da Giani Stuparich in “Guerra del ’15”. E sempre per caso a cinquecento metri dal cimitero di Monfalcone, nel rione di Aris, esiste un agglomerato di case popolari che risale agli inizi degli anni Cinquanta che i monfalconesi non più giovanissimi chiamano, guarda un po’, lazzaretto perché in quei luoghi, alla fine della Prima guerra mondiale, fu creata una sorta di baraccopoli.
Pure a Turriaco – come ricorda Alberto Vittorio Spanghero, appassionato e affidabile ricercatore storico e autore di pregevoli scritti – c’era un lazzaretto. Fu costruito negli anni Cinquanta dell’Ottocento nella località Casoni. Si trattava di una casa in pietra, demolita una quarantina di anni fa, che poteva ospitare una trentina di persone.
Nella seconda metà dell’Ottocento, ai tempi del colera più tignoso che si ricordi, chissà se era in voga il termine psicosi. Qualcosa di simile certamente sì perché, ricorda Spanghero «Lo spavento che tale flagello mortale incuteva era incredibile: bastava si spargesse una voce o s’insinuasse il pur minimo sospetto del contagio che tutti entravano nella più ansiosa delle angosce, ricorrendo a tutti gli espedienti precauzionali possibili per tener lontana la minaccia invisibile».
Nel 1836 scoppiò improvvisa l’epidemia di colera, la prima di una serie di altre più o meno disastrose che si susseguirono per alcuni decenni. Tali sciagure venivano talora interpretate come castigo divino per i troppi peccati commessi dagli uomini; ne conseguivano le invocazioni e gli scongiuri ai Santi e alla Vergine per chiedere protezione. Così nel 1836 – ricorda Spanghero – quando il flagello del pestifero morbo fece la sua lugubre comparsa sulle terre del Goriziano, del Gradiscano, del Monfalconese, del Cervignanese e del Palmarino e in tutte le zone limitrofe, la gente terrorizzata, non avendo scampo e vista l’impotenza della medicina di allora cercò conforto nelle fede e fece voto di andar ogni anno in pellegrinaggio ad onorare la beatissima e miracolosa Vergine Maria di Barbana, qualora per la sua intercessione fossero stati risparmiati.
Improvvisa e particolarmente funesta fu la recrudescenza del morbo, che si abbatté con inaudito vigore su tutta la regione nel 1855. Dalle cronache del tempo sappiamo che nella sola città di Trieste il colera causò la morte di 3000 cittadini; nella contea di Gorizia e Gradisca si ebbero in quegli anni (1855-1866) 5754 vittime solo causa del colera su una mortalità complessiva di 11. 025 persone, raddoppiando la media di una lunga serie di anni. La stessa cosa si manifestò in Boemia, in Moravia, in Galizia e con particolare virulenza nel resto della monarchia asburgica, dove il colera causò complessivamente la morte di 165. 292 persone.
Il paese di San Canzian d’Isonzo, risparmiato dalle epidemie degli anni precedenti, ebbe il primo morto di colera solo nel 1855 e fu un certo Francesco Codarìn, di anni 36. A Turriaco morirono per colera nel decennio che va dal 1850 al 1860, ben 390 persone, facendo strage di braccianti, contadini e cestai. Nello stesso decennio, nel territorio di Monfalcone, la mortalità fra le persone a causa del colera, passò mediamente dal 22 al 52 per mille. Tra le varie disposizioni prese dalle autorità di polizia e di sanità pubblica per arginare gli atti criminosi che avvenivano in occasione di grandi calamità fu intensificata la sorveglianza sia pubblica sia privata. Solo nel 1847 a Turriaco ci furono alcuni furti nelle abitazioni, casi di rapina, contrabbando e infanticidio: niente di nuovo sotto il sole. Inoltre, per eliminare il diffondersi del contagio, ci furono, oltre la chiusura delle scuole la cessazione di ogni attività che riguardava espressamente il servizio spirituale e liturgico dei parroci. Infatti in una circolare spedita dalla Pretura di Gorizia al decano di Monfalcone il 7. 8. 1855 possiamo leggere: “Per non cagionare timore, spavento o terrore agli abitanti col continuo suonare la campana dei morti e col frequente portare il SS. mo Sacramento e per non aumentare con ciò la disposizione al morbo, si dovrà suonare la campana per i defunti solo alla mattina e alla sera e sospendere ogni pompa per la somministrazione del SS. mi Sacramenti se non richiesti dai moribondi”.
Tutti gli accorgimenti furono di scarsissima efficacia di fronte alla promiscuità di vita delle persone di quel tempo e, se lo vogliamo dire anche dell’ignoranza e dall’inconsapevolezza di essere spesso portatori di contagio. Basti pensare che, nonostante le disposizioni fossero state affisse sulla porta della chiesa, i panni sporchi, le stoviglie mal lavate, i cessi all’aperto, le defecazioni fatte su letamai e nelle stalle e il sistema fognario inesistente continuarono ad essere la normalità. A queste disposizioni si aggiunse quella dell’Arcivescovo Andrea Goldmayr che, oltre ad indire pubbliche preghiere in tutta l’Arcidiocesi, inviava a tutte le parrocchie le seguenti esortazioni “Ogni giorno l’Arcivescovo prega per tutti “pastori e pecore” e quando il morbo avrà cessato di uccidere tutti assieme si renderà grazie a Dio”. –
Riproduzione riservata © Il Piccolo