Con la scrittura si incita al sangue o si piange la vita

La letteratura come testimonianza. Un tema di grande interesse e problematico. Ne aveva trattato, ancora nel 1966 (sul “Menabò” di Vittorini e Calvino) Hans Magnus Enzensberger in un saggio su Letteratura e storiografia, dove poneva il problema di una letteratura che entra negli spazi rimasti inesplorati dalla storiografia ufficiale e accademica, e degli strumenti per esplorare punti di vista inediti o poco conosciuti. È un fatto che molta storiografia recente ha risposto a queste esigenze: basti pensare ai punti di vista, considerati da Peter Burke, delle microstorie, della storia orale, della storia dal basso, della storia per immagini, dell’attenzione al “racconto”. Ma è anche un fatto, dibattuto dai teorici, che il linguaggio letterario – con le sue potenzialità linguistiche, la sua capacità di offrire possibilità interpretative molteplici dei fatti rappresentati, la ricchezza di valenze metaforiche e simboliche delle situazioni umane – sembra avere della chances particolari di fronte ad altri linguaggi e tipologie rappresentative. Naturalmente, c’è letteratura e letteratura: un’etichetta nella quale sono comprese scritture di tipo retorico, evasivo, enfatico, ripetitivo ma anche – da un altro lato – testi originali e capaci di penetrare la sostanza delle cose e delle situazioni. Il problema di fondo è il punto di vista, la capacità di vedere fuori dagli schemi e di rinunciare allo slogan, al luogo comune, alla volontà di catturare a ogni costo il consenso del pubblico (oggi: audience).
Il discorso sarebbe lungo ma può essere ben condensato nella valutazione di quella che chiamiamo “letteratura di guerra”. Da un lato, il linguaggio dei manifesti, bollettini, proclami, della propaganda e della burocrazia militare, talvolta fatti propri degli scrittori impegnati nella rappresentazione degli eventi bellici; da un altro lato, le pagine di chi sente l’impegno e la sofferenza umana che stanno dietro quelle esperienze, la solidarietà, anche il dolore e la “sospensione” di condizioni umane accettabili. Da un lato, scrittori anche di qualità che mettono la loro abilità al servizio dell’incitamento e della propaganda, come il D’Annunzio della Canzone dei Dardanelli, in polemica con quella che il poeta considerava l’inerzia di Giolitti, a proposito della quale comunicava al figlio Mario (novembre 1911) che stava scrivendo una “canzone navale“ d’una “violenza inaudita“ («E sentirai come io torco i due colli all’Aquila bicipite. Sfortunatamente le rime, anche robuste, non sono navi né cannoni, ahimé»).
Molti di questi versi delle Canzoni delle Gesta d’oltremare (e quelli dei Canti della guerra latina, 1914-1918) rappresentano – è stato detto – testi di valore solo storico, «oratoria in versi», d’occasione, efficaci per il fine immediato che si proponevano, intessuti di invettive e di note di scherno e di disprezzo nei confronti degli avversari, austriaci e austriacanti. Un fine, questo dell’incitamento oratorio e della comunicazione guerresca, che si ritrova anche nei motti dannunziani, scritti per il Comando supremo dell’esercito, per il quale – come ebbe a dire Romain Rolland - il «”retore terribile” fu una vera benedizione» (Motti dannunziani, a cura di Paola Sorge, Roma, 1994). Del resto, anche il motto «Eja,eja,eja, alalà» era stato «suggerito da D’Annunzio al posto del “barbarico” hip, hip urrà! durante una cena alla mensa al campo della Comina, nella notte del 7 agosto 1918» (ivi) ed era pieno di reminiscenze letterarie classiche.
Al limite, su questo versante della scrittura oratoria, troveremo versi come quelli del Vittorio Locchi della Sagra di Santa Gorizia che, a proposito di un attacco, scriveva «E il fante aveva fame:/ fame di terra del Carso/ più buona della pagnotta,/ impastata di sangue,/ cotta dalle granate/ benedetta dai fratelli/ caduti con la bocca avanti/per baciarla morendo/…/ poi noi ci sazieremo/ nell’agape attesa da tanto,/ sulla tavola dell’altopiano/ su la tovaglia di porpora,/ che si stende fumando!»).
A questa sorta di “gastronomia” bellica, tutta di sangue, si potrebbero contrapporre altre e diverse immagini di guerra che nascono da testi problematici, ben più profonde rispetto alle metafore enfatiche di Locchi. Come alcune note dal taccuino di Slataper dove la riflessione del paesaggio di guerra fa nascere una dolorosa riflessione sul senso della vita, del lavoro, su ciò che viene buttato e disperso per effetto della guerra, sul rapporto tra la natura, il lavoro e la morte: «La guerra è – come sentì Tolstoj – in quel curioso spazio al di là della propria trincea, silenziosa, placida, col suo grano che matura senza scopo». Forse è nella natura stessa di eventi come la guerra di radicalizzare – in alcuni scrittori- le posizioni e di stimolare la retorica. E forse è per questo che, su un altro versante, spiccano parole come quelle ora citate di Slataper e libri come quelli di Erich Maria Remarque, Ernest Hemingway, Fritz Weber, John Dos Passos e – tra gli italiani – di Emilio Lussu, Giuseppe Ungaretti, Mario Puccini, Giani Stuparich, tra gli altri. E si ricordino pure i versi dell’epica popolareggiante di Giulio Camber Barni, di quella Buffa (espressione gergale per indicare la fanteria), sequestrata nel 1935 dal prefetto fascista di Trieste, dove la guerra veniva vista, dal basso e dal centro, fuori da ogni apologia e celebrazione guerresca; in quell’intreccio di vita, morte, dubbi, ricerca, solitudine che è il mondo della guerra e con un’attenzione rivolta pure al nemico, alla sua fisionomia, alla sua identità umana, anche nel momento della morte. Ancora sullo stesso versante, vanno ricordate certe rappresentazioni secche e drammatiche delle situazioni di quegli anni che si ritrovano in alcuni dei versi scritti da Saba «durante la guerra» (Milano 1917 e La stazione) o certe pagine incisive del diario di Giani Stuparich ripreso e pubblicato nel 1931 (Guerra del ’15) – uno dei testi più alti e problematici nati da quegli eventi - dove al rifiuto dell’enfasi corrisponde la rappresentazione di un’esperienza di ansia, timore, terrore, anche di paura (quella di trovarsi nelle condizioni di dover uccidere), una considerazione dei soldati (e degli uomini) come foglie sbattute dall’uragano.
Su un altro piano, Svevo. Svevo che non indossa la divisa, non va in guerra, ma ne testimonia e ne condensa il senso nelle pagine finali della Coscienza di Zeno dove viene raccontato l’incontro del protagonista con la guerra attraverso note ironiche e corrosive verso il mondo militare, dominato da una disciplina meccanica e rappresentato con note quasi di comicità; in una rappresentazione che si dilata a considerazioni più vaste, come nella rappresentazione dei treni che portavano i soldati verso il fronte («E i poveri uomini vi andavano sghignazzando e cantando. Da tutti quei treni uscivano i medesimi suoni di gioia o di ebbrezza»). Note che riguardavano una umanità che andava incontro alla rovina, a un male materiale e fisiologico che sembrava colpire l’organismo della terra. Pagine che, non a caso, precedevano quelle conclusive del romanzo, sulla salute e sulla malattia, sull’inquinamento della vita attuale, sulla grottesca e drammatica distopia di una possibile rigenerazione attraverso una fase distruttiva.
. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo