Dallo Stato 1,2 milioni alla famiglia Rasman

Un milione e 200mila euro. È questa la somma che il Ministero degli Interni e tre agenti della Questura di Trieste (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giovanni De Biasi) dovranno pagare alla famiglia di Riccardo Rasman, il giovane di 34 anni morto nel 2006 in seguito all’irruzione della polizia nella sua abitazione di Borgo San Sergio. Il risarcimento in sede civile “in solido”, al netto delle rivalutazioni e degli interessi, è stato disposto dal giudice Giulia Spadaro. Nella sentenza esecutiva di condanna l’importo del risarcimento viene ripartito tra la madre Maria Albina Veliscek (556mila euro), il padre Duilio (345mila euro) e la sorella Giuliana (200mila euro). Inoltre il giudice Spadaro ha condannato il Ministero e i tre agenti alla refusione delle spese. «Ho il mandato per procedere in forma esecutiva nei confronti dei debitori. Se per il Ministero dovremo aspettare 120 giorni, come prevede la legge, per i poliziotti non ci sono questi termini. E quindi avvieremo subito i pignoramenti. Questa è una sentenza esecutiva», ha detto l’avvocato Giovanni Di Lullo che assieme al collega Claudio Defilippi ha assistito la famiglia Rasman.
La sentenza civile fa seguito alla pronuncia della Cassazione penale avvenuta nel mese di settembre del 2012 dopo la condanna definitiva dei tre poliziotti a sei mesi di reclusione. Il giudice Spadaro, nella valutazione dell’entità del risarcimento, ha tenuto conto dei danni psicofisici sofferti dai familiari di Rasman. «Emerge senza ombra di dubbio - scrive il giudice - il forte legame viscerale intercorrente tra la vittima e i superstiti, alla luce anche del rapporto di sangue strettissimo. Le modalità della morte hanno inoltre ingenerato nei congiunti il pensiero di essere vittime del sistema e di un’ingiustizia, di un complotto creato nei loro confronti. In particolare, per i genitori, la morte del figlio ha fatto spegnere in capo agli stessi qualsivoglia ragione per continuare a vivere, se non fosse per assistere alla fine del processo». Non è stata invece accolta la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale subito: Riccardo Rasman contruibuiva infatti con il proprio stipendio al bilancio familiare. Ma gli accertamenti disposti dalla Procura all’epoca non avevano mai definito in modo esaustivo questo aspetto. Il punto nodale del procedimento civile - ora a sentenza - è stata la citazione nei confronti del Ministero per la somma di otto milioni di euro. Nella citazione era stato evidenziato che Rasman si rendeva conto di stare per morire soffocato. Sarebbe stato sufficiente che i poliziotti o i vigili lo sollevassero e la sua vita sarebbe stata risparmiata. A questo danno si è affiancato il danno biologico, esistenziale e morale che ancora oggi stanno patendo i genitori e la sorella. Nel mese di settembre del 2012 l’Avvocatura dello Stato, rappresentata dall’avvocato Marco Meloni, aveva offerto un risarcimento complessivo di 500mila euro: una transazione che aveva avuto anche lo scopo di evitare il sequestro dei soldi conservati nella cosiddetta cassa dei passaporti della Questura. Ma gli avvocati Di Lullo e Defilippi lo avevano rifiutato ritenendolo insufficiente. E per questo motivo la causa civile è andata avanti fino alla sentenza del giudice Spadaro, che è stata depositata nei giorni scorsi. L’avvocato Defilippi contesta comunque il fatto che il giudice civile non abbia riconosciuto ai familiari il danno patrimoniale e quello cosiddetto “tanatologico”, ovvero il danno subito da Rasman e tramandabile alla sua famiglia. Famiglia che è «stremata, dopo dieci anni di battaglia contro lo Stato». Per questo appare probabile un appello da parte dei legali della famiglia, che ritengono comunque insufficiente il risarcimento. Va aggiunto infine che tutti i magistrati che si sono occupati di questa terribile vicenda hanno riconosciuto il pieno diritto e la piena legittimità dei poliziotti di fare irruzione nel monolocale di via Grego a Borgo San Sergio dal cui terrazzo Riccardo Rasman aveva gettato un petardo. Ma l’errore tragico degli agenti è stato quello di aver trattenuto troppo a lungo bloccata sul pavimento la vittima, esercitando sul torace una pressione che si è rivelata fatale. In sintesi Rasman non sarebbe morto se la pressione esercitata appunto sul suo torace non si fosse protratta nel tempo.
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