Dare fuoco al mito di Trieste letteraria. O forse meglio tenerla in vita, ma in maniera virtuale

Ho sognato di dare fuoco al mito della città di carta. All’immagine forzata di una Trieste paradiso degli scrittori. Dove la letteratura sarebbe il centro di gravità permanente delle nostre vite. Trovavo questo identikit della mia città affrettato, falso. Comodo nel suo farsi cliché, come scrivono Claudio Magris e Angelo Ara in “Trieste, un’identità di frontiera”, per fornire un alibi “della sua classe dirigente e della sua inadeguatezza politico-sociale”. Insomma, mi sembrava la bugia perfetta per parlare d’altro. Per non affrontare la realtà di una Trieste che naviga a vista. Senza più industrie, senza cantieri, avara di lavoro per i giovani. Capoluogo di una regione autonoma che la tratta alla stregua di una capricciosa nobildonna decaduta. Ancora bella, sì, ma incapace di ribellarsi alla nostalgia. Di togliersi di dosso i panni della colta, viziata nullafacente. Mi sarebbe piaciuto, insieme a Mauro Covacich di “Trieste sottosopra”, dare una spallata all’immagine “aristocratica, salottiera, della città tutta Sissi e operetta”. Capoluogo del “musizieren”, del tirare tardi a teatro e al cinema, del poetare. Non potevo dimenticare che questa decantata città di carta aveva snobbato Italo Svevo. Fino a fargli credere che la letteratura fosse un vizio. Simbolo di inettitudine, di malattia.
Non riuscivo a scordare che si era divertita a etichettare il poeta Umberto Saba come lagnoso e tirchio. Che aveva sottovalutato il genio di James Joyce, scrittore capace di ribaltare il romanzo del ‘900. Che aveva ignorato la testimonianza letteraria, civile e umana, dello sloveno Boris Pahor. Poi due anni fa, a Milano, ho incontrato Jan Brokken. Da tempo desideravo intervistare il grande giramondo olandese, dopo aver letto “Anime baltiche” “Bagliori a San Pietroburgo”, “Nella casa del pianista”, “I giusti”. Le prime parole che mi ha detto, accompagnate da un sorriso, sono state: «Sogno di passeggiare per le strade di Trieste, che hanno conosciuto Italo Svevo, James Joyce, Giorgio Pressburger».
Parole che ha ripetuto l’anno scorso, a ottobre. Quando l’ho invitato al Festival Barcolana un mare di racconti, ideato e organizzato insieme a Mitja Gialuz. Ecco, grazie a lui ho capito che sbagliavo, quando desideravo fare un falò della città di carta. Perché dovevo trasformare il mio sogno. Fare in modo che le parole di Jan Brokken diventassero realtà. Non sto parlando di un museo della letteratura. Quello lo propone da anni l’amico Renzo S. Crivelli. E presto, forse, il Comune gli darà forma. Penso a qualcosa che proietti il passato dentro il futuro. Un’idea nuova che dico ad alta voce. Per condividerla con chi ci sta. Se smettessimo di demonizzare la tecnologia, potremmo portare Jan Brokken, e tutti i sognatori come lui, a camminare per le vie di Trieste fianco a fianco con i grandi scrittori. Basterebbe utilizzare la realtà aumentata.
E ridare vita a chi non c’è più con la Cgi, la computer grafica, già utilizzata dal cinema con ottimi risultati. Lo hanno fatto in Danimarca, nella cittadina di Helsinger. Dove c’è il castello di Kronborg, quello in cui William Shakespeare ha ambientato il suo “Amleto”. In una sala, dal buio, d’improvviso si materializza la figura del Bardo inglese. Ricreata da un proiettore collegato a un computer. Seduto alla scrivania, il poeta di Stratford-upon-Avon inizia a scrivere la tragedia sul principe vendicatore. E le parole zampillano dal pennino tra i piedi di chi guarda la scena ipnotizzato. Solo così la Trieste di carta prenderebbe vita, in maniera virtuale. E saprebbe far sognare anche i più giovani. Perché dimostrerebbe loro che vecchio non è sempre un sinonimo di noioso. —
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