Dietro il "caso Heinichen” le zone d’ombra di una città
Le reazioni dopo lo svelamento del ”serial writer” danno un quadro strano, se non deprimente della città

La copertina dell'ultimo libro
La Fatwa “islamica” lanciata in consiglio comunale a Trieste contro il giallista tedesco Veit Heinichen, reo (pensate!) di avere criticato la classe politica locale su una rivista straniera, la precedente falsa accusa di pedofilia lanciatagli per oltre un anno da un instancabile produttore di lettere anonime, e infine le reazioni seguite allo svelamento della persecuzione da parte della vittima, stanno dando di Trieste un quadro a dir poco strano, se non deprimente.
Riepiloghiamo gli eventi. C’è uno scrittore straniero che fiuta “storie” in una città dove la Guerra Fredda non finisce mai, le racconta modificando i nomi dei protagonisti sotto forma di romanzi gialli e vende i suoi libri in mezza Europa in diverse lingue, mentre il suo “eroe” – l’investigatore Proteo Laurenti - ottiene per Trieste un ritorno di immagine analogo a quello del commissario Maigret per la vecchia Parigi. In qualsiasi altra città si fregherebbero le mani. Ma qui, a due passi dai Balcani, si urtano suscettibilità.
Accade tutto all’improvviso, quattordici mesi fa, quando inizia la pioggia di lettere. Migliaia, scritte da un professionista della diffamazione. Uno che non lascia né impronte digitali né tracce di Dna (forfora, sudore, un capello). Uno che ha tempo e denaro da perdere per condurre a termine il suo lavoro, non si sa se per conto suo o di altri. Uno che spara con metodo, al ritmo di due raffiche di lettere al mese. Non pare affatto un maniaco: piuttosto è un “serial writer”, una specie di “Unabomber” dei servizi postali.
Sono anni che Veit continua col suo gioco letterario, ma mai ci sono state reazioni. Stavolta, invece, il putiferio. Perché? Secondo i criminologi qualcosa è accaduto nell’estate del 2007 o poco prima. Che cosa? In quel periodo, di importante vi è questo: la “riesumazione” in un romanzo di Heinichen del giallo irrisolto sulla morte del collezionista d’armi Diego de Enriquez, bruciato vivo nel suo archivio-laboratorio.
De Enriquez non era solo un raccoglitore di ricordi bellici. Era anche uno che aveva memoria. Teneva diari. Aveva raccolto centinaia di volumi, con dentro tutta la storia di Trieste del secondo dopoguerra. Cose nobili e meno nobili. Spesso cose pesanti, dense di dettagli. Il giudice di Venezia vi trova elementi decisivi per risolvere anni dopo il rebus del delitto di Peteano - tre carabinieri fatti saltare in aria dai post-fascisti – e illuminare la fase costitutiva di “Gladio”, l’organizzazione paramilitare clandestina che ha operato per anni sulla frontiera contro il pericolo slavo-comunista.
Oggi l’originale dei documenti sopravvissuti all’incendio e poi passati per la procura di Venezia sono in possesso della città, custoditi dai civici musei, ma con pagine “secretate”, si afferma, per motivi di privacy. Il vecchio collezionista sapeva delle trasversalità esistenti sulla frontiera, e di come certe congreghe avevano costruito il loro potere sulle leggi antiebraiche e sulle tensioni della Guerra Fredda. Conosceva perfettamente la memoria “strabica” di Trieste. Per questo lo prendevano per matto, e per questo forse è morto.
Alla fine tragica di de Henriquez seguì quella del professor Gaetano Perusini (1910-1977), docente di tradizioni popolari e amico del collezionista d’armi. Morì in circostanze equivoche (omosessualità?) poco dopo aver cambiato testamento in favore del potentissimo Ordine dei cavalieri di Malta. La famiglia avvertì gli inquirenti che il professore, padrone dei vigneti di Rocca Bernarda, stava lavorando sulla morte dell’amico. Ma le indagini andarono in tutt’altra direzione. Anche su questa mette le mani il tedesco rompiscatole col vizio della memoria. Rimesta, racconta, urta suscettibilità. Fa conoscere le zone d’ombra e le rimozioni storiche della città ai lettori tedeschi, di altre nazioni europee e infine a quelli italiani.
Va bene ovunque, tranne a Trieste. Scopre che ci sono argomenti intoccabili. Lo capisce quando s’accorge che quasi nessuno, nemmeno a sinistra, prende le sue difese. È a questo punto che scatta l’operazione calunnia. Pesante, sistematica. La vittima innocente è sulla bocca di tutti, ma è costretta a tacere per non compromettere le indagini. Le lettere continuano, a ritmi incredibili, raggiungono tutta la Trieste che conta, fanno il vuoto attorno allo scrittore. La polizia indaga, ma inutilmente: finisce impantanata in false piste. Ha a che fare con uno specialista, uno che vede tutto senza essere visto.
Pedofilia. L’accusa perfetta per demolire una persona. Nella storia della città c’è un caso che fa scuola: l’ex vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi, ripetutamente attaccato dalle congreghe nazionaliste per avere introdotto lo sloveno nelle prediche. La scusa dell’attacco era una lettera di garanzie che incautamente il sant’uomo aveva firmato con altri in favore di un esponente della Trieste economica incarcerato in America per pedofilia. Era naturalmente una trappola: e difatti si lasciò filtrare la voce che il vescovo aveva firmato in quanto ricattabile. Dunque era anch’egli pedofilo o omosessuale.
Ma torniamo a noi. In quattordici mesi il malefico venticello contro Heinichen cresce, diventa tempesta, finché ci si mette di mezzo anche la politica, col penoso consiglio comunale contro il tedesco. Anche lì, pochissimi a difenderlo. La calunnia anonima ha fatto breccia. Come col vescovo Bellomi, anche qui all’accusa sommersa si è affiancata l’accusa pubblica, con richieste di sostituzione in Vaticano e addirittura l’esplosione di un grosso petardo durante una Messa solenne. È qui che arriva la lettera del giallista al “Piccolo”, col racconto del più imprevedibile e il più vero dei suoi romanzi: la sua stessa persecuzione. Veit svela tutto nei dettagli, afferma un possibile parallelo fra la calunnia e la pubblica scomunica, ma le reazioni della politica lasciano senza fiato.
“Il solo pensiero che possa esserci un collegamento fra la politica e il corvo è volgare e offensivo” sbotta Piero Camber di Forza Italia, che rincara la dose: “Le insinuazioni fatte da Heinichen vanno a specchio con le accuse che denuncia di subire”.
Persino la presidente della Provincia, Teresa Bassa Poropat parla di lui con inusuale prudenza, lo definisce “uno che si reputa innocente”, nonostante le indagini abbiano tolto ogni dubbio sulla sua fedina penale. Da parte di una tremebonda sinistra solo timidi Sms. Non c’è nessuno che pensa di cavalcare lo scandalo, ormai riportato da tutti i giornali d’Italia, nemmeno per opportunismo. Eppure l’occasione è ghiotta, la visibilità assicurata. Solo la gente comune afferra il grottesco nella storia, e scrive al giornale lettere di simpatia per il tedesco.
Forse solo il sindaco Dipiazza capisce che la città sta scivolando su una buccia di banana. Il resto è silenzio. Da qui un po’ di domande. Di cosa o di chi hanno paura i politici triestini? Esistono armadi con scheletri che si teme di aprire? Quali spazi inesplorati vi sono nella storia di Trieste dalla guerra fino a oggi? Come mai sul Corvo indaga la Squadra Mobile e non la Polizia politica? Perché il grafomane calunniatore chiede di riaprire le indagini sul giallo di un poliziotto in pensione ucciso in fondo a una dolina? È questo che conta sapere. Non chi sia il maniaco e quali paranoie gli attraversino il cervello.
È strano. In questi giorni è come se Trieste si trovasse di fronte non a un folle o a un a congiura ma al suo stesso subconscio; una zona d’ombra della memoria oppure un brutto sogno, figli entrambi di un confine che si ostina a non sparire dalla testa della gente. Dietro, una rete impressionante di veti incrociati e di segreti condivisi, di rancori legati al fascismo o alle vendette jugoslave, per non parlare delle consorterie e delle rendite di una classe dirigente che campa di passato. Una città stesa su un lettino, con dietro un’ombra. E un tedesco a fare da involontario strizzacervelli.
Argomenti:veit heinichen
Riproduzione riservata © Il Piccolo
Leggi anche
Video