Fabio Stassi: «I miei libri nascono in treno»

di Alessandro Mezzena Lona
I treni, per Fabio Stassi, sono laboratori di scrittura. Incubatrici di storie, territori liberi per la fantasia. E lui, siciliano che vive a Viterbo e lavora come bibliotecario all’Università La Sapienza di Roma, ha trasformato la disavventura di essere pendolare nella grande avventura di costruire tutti i suoi libri mentre i vagoni arrancano sulle rotaie. Finendo per sbagliare stazione, a volte.
Non stupisce, allora, che i treni, i pendolari ritornino anche nel suo romanzo “L’ultimo ballo di Charlot”, pubblicato da Sellerio. Un libro che è piaciuto così tanto alla Giuria dei letterati del Premio Campiello da spingere Fabio Stassi nella cinquina dei finalisti con un bel gruzzolo di voti. Sabato, al Teatro la Fenice di Venezia, verrà proclamato il vincitore.
Quarto romanzo (dopo “Fumisteria”, “È finito il nostro Carnevale”, “La rivincita di Capablanca”), “L’ultimo ballo” racconta lo Charlot di cui le biografie dicono poco. Quello che ha trascorso un’infanzia molto dura in Gran Bretagna, tra un padre alcolizzato e una madre destinata alla follia. Quello che esordì al circo, prima di arrivare al successo negli Stati Uniti. Un orfano a spasso per il mondo con tanti sogni in tasca, destinato a incontri con uomini e donne straordinari. Ma anche costretto a fare i conti con il razzismo del Ku Klux Klan, con la follia che avrebbe travolto l’Europa e il mondo. In un turbinio di storie che la Morte vorrebbe spegnere, ma che si ferma ad ascoltare anno dopo anno. Concedendo un po’ di vita in più al vecchio Charlie Chaplin
«Sono molto legato a Trieste. Mia moglie è di origine triestina e io pensavo di venire a vivere in città - dice Fabio Stassi -. Nel 1992, ho fatto l’abilitazione all’insegnamento proprio a Trieste, scegliendo come autore per l’esame Pier Antonio Quarantotti Gambini. Un grande scrittore un po’ dimenticato, nonostante la stima che Eugenio Montale aveva per lui».
E com’era andata?
«Molto bene, però non c’erano cattedre. E così sono rimasto a Roma a fare il bibliotecario. Peccato, perché amo molto la cultura mitteleuropea, Claudio Magris, le suggestioni letterarie. E poi, i triestini sono i siciliani del Nord».
Com’è arrivato a Charlot?
«Nella sua autobiografia c’è una lacuna. Charlie Chaplin non parla del suo film “Il circo”, non gli dedica la minima attenzione. Forse per il fatto che, durante le riprese, successe di tutto: andarono a fuoco gli studi, gli rubarono i carrozzoni, divorziò per la seconda volta. Eppure, c’era stato un momento in cui diceva che quella sarebbe stata la sua pellicola migliore».
Strano quel vuoto di memoria...
«Le reticenze, a volte, dicono più di tante parole. In quel silenzio, in quel film, mi sono convinto che ci fosse qualcosa di profondo. Infatti, la sua carriera iniziò a Londra proprio dentro un circo. E lì Chaplin venne educato non solo alla recitazione, ma anche ai segreti della vita».
Il suo maestro fu il mimo francese Marceline?
«Un personagg. io esistito per davvero. Gli insegnò che meno muovi il viso più diventi espressivo. Io mi sono infilato in questo mondo con la fantasia del narratore. Perché il romanzo è uno degli esercizi più belli della libertà di fantasticare».
Più romanzo o più biografia?
«Assolutamente più romanzo. Anche se parla di persone vere, ha la licenza di mentire. La letteratura insegue una verità sua che, a volte, non coincide con quella storica, biografica».
Qual era il vero volto di Chaplin?
«In Chaplin, arte e vita si sovapponevano in maniera totale. Il suo coinvolgimento emotivo non era solo professionale. Ogni film che ha fatto, in fondo, contiene un pezzo segreto di lui».
“L’ultimo ballo” è stato il più votato dalla Giuria dei letterati. Alla serata finale di Venezia ci va da favorito?
«Ci vado seguito dall’ansia. Io mi agito anche se devo semplicemente presentare un libro. Questa volta, però, ho deciso di affrontare la serata finale di Venezia come fosse una grande festa. Così, porto anche la famiglia...».
E gli altri finalisti?
«È stato bello conoscerli, stare con loro. Valerio Magrelli l’avevo incontrato 35 anni fa, quand’ero ancora studente, e adesso l’ho ritrovato. Peccato per Ugo Riccarelli, che è stato insieme a noi solo a Roma. Stava già molto male ed è morto un mese dopo. Credo che vincerà lui, oppure Beatrice Masini».
Vive a Viterbo, lavora a Roma: quando scrive?
«Sono quasi vent’anni che faccio il pendolare. Trascorre almeno quattro ore in treno. La sveglia suona poco dopo le cinque, poi resto dodici ore lontano dalla famiglia. A casa ci sono i miei tre figli: dove devo scrivere? Approfitto di quel tempo di viaggio, mentre andiamo sulle rotaie».
Mai sbagliato stazione?
«Una volta sono finito a Orvieto, non mi sono accorto della mia fermata. E poi qualcuno si chiede a che cosa servano i libri: per esempio, a non far impazzire di noia un povero pendolare. Ci sono giorni in cui per fare 90 chilometri ci si mette tre ore e mezza».
Pendolari ci sono anche nel suo ”Ultimo ballo”...
«Sì, perché Chaplin è stato molto povero prima di diventare famoso. C’è un capitolo sui suoi viaggi in treno: un luogo di grande solidarietà umana».
Quando si è innamorato della scrittura?
«A sette anni pensavo che da grande avrei fatto lo scrittore. A otto anni ho composto una poesia per la morte di Louis Armstrong. Insomma, ero già un amante della letteratura, della musica, con una forte insofferenza per il razzismo. Avevo uno zio poeta che portava a casa libri, suggestioni culturali, ma la mia famiglia era molto umile».
Che tipo di musica preferisce?
«Adoro la musica brasiliana. In particolare, la bossanova, con quel respiro irregolare, melanconico, tutto in levare. Ecco, a me piacerebbe scrivere con quel ritmo. Diceva il jazzista John Coltrane: quando fai un assolo devi dare l’impressione, a chi ascolta, di avere un piede nel vano vuoto di un ascensore».
Facile farsi pubblicare?
«Un percorso lungo. Ho raccolto tanti rifiuti, però c’è un tempo per ogni cosa. Dovevo lavorare, migliorare. Poi, non dimentichiamo che le case editrici sono sommerse di proposte. Sellerio riceve qualcosa come 40 o 50 manoscritti al giorno. Io sono stato fortunatissimo».
Quando le hanno detto sì?
«All’improvviso mi hanno risposto tre case editrici. Tutte insieme. Avevo già quarant’anni, non ero un ragazzino. In ogni caso, non mi sono mai lasciato cullare dall’amarezza. Vedo tanti scrittori frustrati: non voglio diventare così».
Bibliotecario per scelta?
«Ero studente quando bandirono un concorso per aiuto bibliotecario alla Sapienza. Mi dovevo laureare in Storia, mi mandarono a Medicina. Il trasferimento è arrivato dopo un anno e mezzo».
E adesso?
«Lavoro alla biblioteca di Studi Orientali alla Sapienza. Mi sarebbe piaciuto insegnare, ma non si creda che stare in mezzo ai libri sia una specie di vacanza».
La chiamano nelle scuole?
«A volte sì, ma non vado a dire agli studenti che devono leggere: farebbero il contrario. Preferisco parlare loro dei libri che amo, degli scrittori necessari. Come Italo Svevo e quel gran bugiardo di Zeno che rende la “Coscienza” un romanzo strepitoso».
alemezlo
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