Flora Tommaseo e i libri magici contro la notte del vivere

“La stanza dei pesci” è il primo libro della giovane triestina laureata in Cinema
Di Alessandro Mezzena Lona
Lasorte Trieste 20/06/13 - Flora Tommaseo, Scrittrice
Lasorte Trieste 20/06/13 - Flora Tommaseo, Scrittrice

di Alessandro Mezzena Lona

No, le parole non sanno mettere in fuga il dolore. E non possono neanche riscrivere una vita in cui le delusioni sono più forti dei sogni, in cui la malinconia batte dieci a zero l’allegria. Eppure, a volte, quel dialogo privato con la pagina bianca diventa un approdo più o meno solido al quale aggrapparsi. Un’isola nella corrente delle giornate disperate. Del tempo che scorre non per guarire, ma per moltiplicare i fantasmi della mente.

E nel tempo sofferto della giovane vita di Flora Tommaseo, le parole hanno assunto un valore ancora più forte. Arcano. Perché per lei, laureata in Cinema all’Università di Trieste, una grande passione per la musica e la poesia, i quaderni su cui segnare con instancabile precisione le giornate vissute sono diventati “magic books”. Talismani pronti a sfumare la routine quotidiana del male di vivere. Amati feticci, amici più forti delle lacrime e delle troppe medicine, della solitudine e del bisogno d’amore, del silenzio rotto dalla musica sparata in cuffia per allontanare i tormenti.

Dai quei “magic books” ha preso forma un libro. Un testo che sta al confine tra il diario e l’auobiografia. Si intitola “La stanza dei pesci” (pagg. 287, euro 16), esce per Edizioni Alpha Beta Verlag nella collana “180 Archivio critico della salute mentale”, diretta da Peppe Dell’Acqua, Nico Pitrelli e Pier Aldo Rovatti. Ed è accompagnato da una bella introduzione di Claudio Magris. Un piccolo saggio, intitolato “L’autobiografia: dall’acquario al mare”, in cui lo scrittore e germanista triestino ripercorre la rappresentazione dell’Io, e delle sue multiformi incarnazioni, nel divenire della letteratura. Fino a incasellare il libro della Tommaseo nella categoria del “Bildungsroman”. Del romanzo di formazione. In questo caso, «non un romanzo letterario - dice Magris -, bensì un romanzo di vita vera».

Matilde, che sta al centro del libro, è il riflesso di carta di Flora Tommaseo. E come lei prova a vivere in maniera irriverente in una Trieste dove i riti per sentirsi diversi dai propri genitori, per segnare la distanza da una società che poggia le sue fondamenta più sull’apparire che sull’essere, sono sempre gli stessi. Alcol da mandar giù come servisse spegnere una sete inestinguibile. Canne da fumare, cocaina da sniffare, per alzare un muro smisurato tra sé e le lacrime ricacciate in gola, le amicizie disattente, gli amori che graffiano il cuore quasi senza saperlo.

All’inizio, Matilde prova a sentirsi davvero lontana anni luce dalla sua famiglia, dal mondo in cui è cresciuta. Prova a inventarsi un mondo tutto suo. Poi, però, piano piano la vita comincia a rispedirle al mittente tutte le sue provocazioni. Fino a trasformare una delle tante storie d’amore nell’appuntamento non voluto con una gravidanza a sorpresa. E con la decisione di abortire, che trascinerà la ragazza fino in fondo al pozzo delle sue sofferenze, delle sue insicurezze.

Aquel punto l’alcol non serve più, la droga aiuta solo a stordirsi. Matilde rischia di perdersi, giorno dopo giorno. Si taglia, si fa male, non sa più che cosa voglia dire vivere. Deve provare a ritrovarsi nei rituali della disintossicazione, nelle ripetitività delle cure. Prima a Trieste, nel parco di San Giovanni, poi in alcune strutture sanitarie e comunità in Veneto. Attraversando quei “Giardini che nessuno sa” cantati da Renato Zero, dove ci si sente «spettatori malinconici di felicità impossibili». Inseguendo un equilibrio che il bombardamento di farmaci non riesce a dare.

E poi, come fare a restare calmi e indifferenti quando chi si innamora di te prima o poi ti ferirà? Quando recuperare un dialogo con i genitori è difficile quanto scalare una montagna. Quando gli atti minimi della realtà straziano l’anima. E allora viene voglia di scappare, di litigare con tutti. Di farsi male. Eppure proprio stando lì, dentro l’acquario delle riunioni di terapia, delle cure da cambiare in continuazione, che Matilde finisce per sognare il ritorno in mare aperto. Come un pesce prigioniero prova a scendere lungo la corrente. Prova a far risuonare dentro di sé tre parole banali, pesanti come macigni: oggi sto bene. Per convincersi che guarire si può.

alemezlo

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