I piccoli oggetti dei morti da coronavirus chiesti invano dai parenti: l'odissea dei familiari a Trieste

TRIESTE La fede nuziale, il pigiama, gli occhiali, le pantofole. Sono pochi, e spesso di scarso pregio, gli oggetti appartenuti agli anziani vittime del coronavirus e rimasti dopo le loro morti nelle stanze di ospedali e case di riposo. Oggetti che hanno però un enorme valore per i parenti delle persone scomparse, che li vedono come ricordi preziosi di chi appunto non c’è più. Entrare in possesso di quei ricordi, tuttavia, si sta rivelando per molti un’impresa difficilissima, che finisce per aggiungere ulteriore strazio al dolore.
Telefonate, mail, richieste di informazioni. Tutte finite nel vuoto. «Mi hanno spiegato che il reparto ospedaliero convertito in area Covid e dove era ricoverato mio marito, è tornato ora all’attività normale, e che la cooperativa che si è occupata di svuotare le stanze prima occupate da pazienti affetti da coronavirus ha portato via tutto, compresa la scatola che conteneva gli effetti personali di mio marito morto il 27 marzo», testimonia Valdemara Amolaro.
La donna, già provata dalla tragedia che l’ha investita, è oggi ancora più rammaricata dal fatto di non poter riavere nemmeno i pochi ricordi di una vita passata insieme al compagno. Suo marito Vitoluciano non ha più potuto né abbracciarlo né accarezzarlo da quando, l’11 marzo scorso, è stato ricoverato all’ospedale Maggiore, dove poi è morto affetto dal virus. La via crucis dell’uomo e della sua famiglia era iniziata dopo una caduta e il ricovero nel febbraio scorso nella Rsa del Sanatorio Triestino. «Il 6 marzo viene dimesso e sta male, – spiega la moglie – l’11 con 40 di febbre viene ricoverato con dolori e difficoltà respiratorie a Cattinara: tampone negativo e polmonite. Nove giorni dopo mi avvisano che l’ultimo tampone invece è positivo e che verrà ricoverato agli Infettivi del Maggiore. Morirà il 27 marzo nel reparto di Oculistica».
Ad avvisare la donna del decesso del marito è stata la caposala. «È nel corso di quella telefonata – ricorda – che ho chiesto per la prima volta come recuperare i suoi effetti personali, tra i quali un rasoio al quale era molto affezionato. La caposala mi ha rassicurato dicendomi che in quel momento non era possibile, per questioni di sicurezza, ma che quegli oggetti sarebbero stati conservati con cura in apposite scatole». A quella telefonata ne sono seguire molte altre, tutte però senza esito positivo. «Fino a quando, poche settimane fa, – spiega sconfortata Amolao – un uomo ha risposto a una delle mie tante chiamate e mi ha informato che il reparto dove era ricoverato mio marito non ospita più persone infette e che tutto ciò che apparteneva loro è stato fatto sparire dagli addetti di una cooperativa di pulizie».
Da allora nessuno ha più ricontattato la famiglia di Vitoluciano. Nessuno ha dato spiegazioni malgrado siano già passati quasi tre mesi dalla sua morte.
E il caso non è affatto isolato. Sempre dall’ospedale Maggiore, anche i figli e il marito della settantaquattrenne Franca – portata via dal coronavirus lo scorso 22 aprile – sono in attesa di ritirare i suoi effetti personali, tra i quali c’è la fede nuziale. «Mia madre ha avuto un malore, – racconta la figlia, che ancora non si rassegna di fronte ad un destino che poteva essere evitato –. Dopo un tampone negativo fatto al Maggiore, è stata portata al Pronto Soccorso di Cattinara e poi ricoverata in Medicina d’Urgenza: dopo una settimana ci hanno avvertito che risultava positiva al Covid 19. A quel punto è stata trasferita al reparto di Geriatria del Maggiore e il 22 aprile se ne è andata». Da quel momento i parenti hanno iniziato a chiedere informazioni per il ritiro degli effetti personali che ad oggi, dopo due mesi, non è stato ancora possibile.
Non è stato organizzato un servizio dedicato, non è stata definita neppure una precisa procedura, come si evince dalle diverse risposte fornite dal personale rispondendo alle tante telefonate indirizzate dalle figlie al reparto, piuttosto che alla segreteria. «Ci manca ancora la procedura», oppure «gli oggetti sono sistemati in una stanza del reparto ma non possono essere consegnati fino quando l’area non sarà del tutto Covid-free. A quel punto verrà sanificata e gli oggetti potranno essere restituiti». Procedure che fanno rabbia ai parenti, secondo i quali sarebbe bastato sistemare gli oggetti in una stanza separata e lasciarli lì in “quarantena” per 14 giorni, per poi consegnarli a casa dei familiari. Un atto di sensibilità nei confronti di persone che per mesi non hanno potuto nemmeno vedere i loro cari morti in completa solitudine, e che in alcuni casi ancora cercano di capire di chi sia la responsabilità di quell’infezione. —
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