I samurai che vegliano sull’oro nero

Al terminale della Siot il chiodo fisso è garantire la massima sicurezza nello scarico del petrolio
Lasorte Trieste 28/05/15 - SIOT, Esercitazione
Lasorte Trieste 28/05/15 - SIOT, Esercitazione
«Noi ghe credemo. Semo samurai». Il capitano di lungo corso Aldo Ugo è il responsabile delle operazioni della Siot, l’azienda che gestisce il terminal del petrolio nel porto di Trieste. È il punto di partenza dell’oleodotto transalpino, un tubo lungo oltre 700 chilometri, attraverso cui passa il petrolio che rifornisce il cuore industriale dell’Europa. Lavorare in un posto simile significa sentire una grande responsabilità sulle spalle: «Siamo coscienti del fatto che un operato poco meno che impeccabile da parte nostra potrebbe avere forti ripercussioni», dice Ugo. La sicurezza qui è un’ossessione giustificata e richiede dedizione. Come samurai, appunto. L’arrivo delle navi è accolto dalle squadre in tuta blu secondo una routine ferrea. I moli per l’attracco delle petroliere sono due, rivolti nella direzione in cui proviene la Bora. Se così non fosse, in inverno lavorare sulla baia di Muggia sarebbe impossibile. L’assistente al supervisore Fabrizio Stein, elmetto di sicurezza bel calcato in testa, racconta come si svolgono le operazioni. «La nave approda con il pilota del porto. Dopo l’ormeggio, sale a bordo il capo pontile che scambia con il capitano le informazioni riguardanti la sicurezza». Una volta accertato che tutto vada per il verso giusto, iniziano le operazioni per lo scarico del petrolio. Una serie di bracci meccanici viene agganciata allo scafo, pronta a riempire il tubo. Prima di attivare le pompe, però, si svolgono le operazioni commerciali, ovvero gli accertamenti sulle misure e sul tipo di petrolio. Concluse queste, inizia lo scarico vero e proprio: «Le pompe della nave vengono attivate e il greggio viene immesso nelle tubature». Al momento, aggiunge Stein, «arrivano navi fino a 280 metri di lunghezza, anche se i pontili potrebbero ospitarne di più grandi». I carichi possono arrivare a 160mila metri cubi di petrolio greggio.


Scaricarne uno occupa dalle 26 alle 36 ore e impegna una squadra di circa 15 persone. Una sala di controllo vagamente fantascientifica monitora il procedimento. Sistemi di controllo monitorano lo specchio d’acqua per identificare il più piccolo sversamento: gli strumenti sono a laser, infrarossi e ultravioletti. In caso di incidente una tubatura subacquea spara un flusso d’acqua effervescente verso la superficie, che delimita l’estensione della perdita. I pontili sono attrezzati anche con barriere gonfiabili, allo stesso scopo. Il sistema antincendio è pronto ai getti d’acqua per domare eventuali fiamme. La tecnologia è importante, ma il fattore umano è fondamentale. Il terminal può ospitare fino a quattro navi contemporaneamente e lavora 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, sole, bora o pioggia che sia.


Il capitano Ugo frequenta questi lidi da molto tempo. «Prima di arrivare qui ho navigato per 15 anni a bordo di petroliere in ambito internazionale, su compagnie americane e greche. Nel 1995 ho avuto l’opportunità di impiegare le mie competenze alla Siot. Lavoro qui da 22 anni». Da dieci ricopre l’attuale incarico. «Se penso a quei tempi mi vien da sorridere rispetto alle operazioni di oggi, al livello di controllo raggiunto - spiega -. Il lavoro in campo marittimo è tradizionalista: servono processi semplici e sicuri. La progressione è quindi lenta, ma costante». Quattro linee di tubi corrono lungo il pontile e si infilano sottoterra a riva. La loro destinazione sono i 32 serbatoi di San Dorligo, i barattoloni che occupano tutta la parte finale della Val Rosandra, che nel 1972 attirarono le sgradite attenzioni di Settembre Nero. Da lì parte l’oleodotto vero e proprio, un tubone unico, diretto verso le Alpi e poi a scendere verso l’Europa centrale. La Siot ha classificato finora 214 tipi di petrolio: una quantità compresa fra le 60 e le 70 varietà passa ogni anno attraverso il terminale. I destinatari sono le raffinerie di Vienna e Ingolstadt in Austria, Karlsruhe e Burghausen in Germania, oltre a due impianti nella Repubblica ceca.


Alessio Lilli è il presidente e amministratore delegato della Siot oltre che general manager del gruppo Tal, che possiede e gestisce l’oleodotto transalpino: «Questa è una delle più importanti infrastrutture logistiche europee - spiega -. Permette di far arrivare milioni di tonnellate di greggio dal porto di Trieste al cuore dell’Europa. Ogni anno passano di qui più di 40 milioni di tonnellate di petrolio. Per dare una dimensione, sono il consumo totale italiano di nove mesi». L’idea dell’oleodotto nasce negli anni ’50, quando la Germania decide di puntare sull’industrializzazione della Baviera e del Baden-Württemberg. «Avevano bisogno di energia a un costo moderato». A quei tempi il gas non era molto utilizzato e il carbone veniva utilizzato nella storica area industriale della Ruhr. Pensarono di costruire delle raffinerie in quei Länder. Enrico Mattei, padre dell’Eni e grande architetto della strategia energetica italiana in quel periodo, sposò il progetto e convinse il governo italiano a sostenerlo.


Gli austriaci si unirono alla partita e, «partendo da zero», spiega Lilli, si costruì l’oleodotto: «Fu una vera avventura, perché i lavori furono completati in mille giorni e dovettero superare difficoltà tecniche inedite, come arrivare a 1600 metri di quota per passare le Alpi». Popoli che erano usciti dalla Seconda guerra mondiale in macerie e guardandosi di sottecchi, «realizzarono un’infrastruttura che ha permesso al Sud della Germania di diventare una delle aree più industrializzate d’Europa, se non del mondo». Oggi i dipendenti Tal sono 220, e in Italia lavorano 116 persone. Sottolinea l’ad: «Tutta la nostra attività costa circa 130 milioni di euro l’anno. Di questi restano sul territorio del Fvg circa 30, 35 milioni l’anno in investimenti e manutenzioni». Il capitano Ugo, sotto il sole di una giornata afosa sulla baia di Muggia, ripensa al peso del lavoro suo e dei suoi colleghi: «Noi siamo consapevoli di essere strategici per l’approvvigionamento di energia nello scenario europeo. Del sito in cui ci troviamo e della località geografica in cui nasce questa infrastruttura». Se l’oleodotto non esistesse, sottolinea la società, per trasportare la stessa quantità di petrolio ci vorrebbe una schiera infinita di camion cisterna tra l’Italia e la Germania. Certo è che l’industrializzazione impone comunque un pezzo da pagare, una libbra di carne. Il segno che una realtà tanto imponente lascia sul territorio è evidente per chiunque si affacci dal castello di San Servolo e guardi verso la Val Rosandra. Un altro motivo per cui chi lavora alla Siot insiste così tanto sulla sicurezza: «Le operazioni iniziano già quando la nave è in rada - dice il capitano Ugo - per tutelare le persone, l’ambiente, gli impianti e la comunità che ci ospita».


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