Il capitano dell’Aeronautica si racconta dopo il ricovero causa virus: «Ho perso la vista per una bomba. Ma il Covid è stato l’avversario più duro»

Il capitano dell’Aeronautica Sergio Cechet racconta la sua battaglia contro il virus che l’ha tenuto in ospedale per 240 giorni

Luigi Murciano

la storia

«Nella vita quanto a difficoltà non mi sono fatto mancare nulla. Ma il Covid è il primo avversario a tenermi così a lungo in un angolo. Non gliel’ho data vinta, ma è una brutta bestia». Nella sua vita da romanzo, Sergio Cechet ha superato tanti ostacoli. Anche i più folli e insormontabili. Capitano in ruolo d’Onore dell’Aeronautica italiana, il 64enne originario di Fogliano Redipuglia e oggi residente a Ronchi dei Legionari è abituato a sfidare la vita sin dal 18 agosto 1982. Ovvero da quando, durante un controllo di routine, l’allora sottufficiale fu travolto dall’esplosione accidentale di una bomba. Tremendo il verdetto: menomazione totale della vista e amputazione della mano sinistra. «E buio fu» sorride lui raccontandolo oggi. Ma in realtà Cechet da allora non ha mai permesso al buio di appropriarsi della sua vita. Sin dall’anno successivo all’incidente ha iniziato la sua seconda vita, non solo sul piano professionale – ha imparato il braille e operato come centralinista dell’Azienda sanitaria isontina – ma soprattutto su quello dei sogni. Tutti coronati fra acqua, terra e cielo: sub da record, copilota d’aereo, paracadutista, sciatore, fuoristradista e pittore. Una continua sfida. La prossima era divenire il primo pilota disabile di superleggero d’Europa. A scombinargli i piani, la pandemia. Il Sars Cov-2 lo ha inchiodato per 8 mesi al letto di diversi ospedali. Appena adesso inizia a vedere la fine dell’incubo, lui che sinora non era stato fermato né dall’handicap, né da problemi cardiaci, né dal diabete. «Brutta bestia il Covid – ripete –. È subdolo». Era marzo quando il nemico che non t’aspetti lo sorprende dopo una sciata con un amico. Cechet è uscito dall’ospedale soltanto 240 giorni dopo, due settimane fa. È passato dal ricovero a Cormons al reparto Covid di Gorizia. È stato in coma per due mesi, aggravandosi sino a finire a Cattinara e risvegliandosi nel reparto di terapia intensiva di Monfalcone. I caschi respiratori (mal digeriti), l’intubazione, la tracheotomia, i polmoni quasi andati. «Ormai ero dato per spacciato – racconta Cechet - . I sanitari si sono trovati a dover scegliere chi curare fra me e un’altra persona: hanno optato per il più giovane, vent’anni meno di me. E purtroppo non ce l’ha fatta. Io invece sono ancora qui. Anche se una gamba non mi sorregge e sono ancora provato. Supererò anche questa. Ho troppa voglia di vivere, ma mai avrei creduto di trascorrere 8 mesi in ospedale. Ho toccato con mano quanto sia sotto pressione il sistema: infermiere che da sole fanno turni di oltre 20 ore. Come possiamo pretendere di uscirne, al di là della serietà del contagio?». Cechet ha le sue perplessità sulle origini del Covid («in natura un virus muta sino a morire, qui sembra evolversi all’infinito») e ancor di più sulla gestione della pandemia («tanti gli errori commessi nella prima ondata, ora i mille equivoci del Green pass»). E lancia un appello a quello che è stato il suo mondo: «All’Esercito italiano chiedo di fare la propria parte. Ci sono tante caserme dismesse, trasformiamole in centri Covid. Non possiamo vivere eternamente in emergenza: troppe patologie stanno venendo trascurate. Su tante cose come cittadino mi sento preso in giro. Ma il virus è una cosa maledettamente seria».

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