Il medico: «Sono stato a Nassirya e in Eritrea ma l’inferno l’ho visto a Bergamo»

TRIESTE Per 14 anni ha lavorato in Medicina d’urgenza all’ospedale di Cattinara e, come tenente colonnello del corpo militare della Croce Rossa Italiana, ha operato in numerose situazioni d’emergenza: nel 2002 è stato in missione con l’Onu in Eritrea, nel 2004 era in Iraq, a Nassiriya, nel 2009 in Abruzzo per la ricostruzione post-sisma e nel 2014 era tra i medici dell’operazione Mare Nostrum. Eppure Vincenzo Livia, Enzo per gli amici, non si era mai trovato in una situazione come quella che ha vissuto all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo nei giorni in cui l’epidemia di Covid-19 è esplosa nella città lombarda, trasformandola in uno degli epicentri della tragedia sanitaria. Le immagini delle strazianti colonne di mezzi militari impiegati per trasportare al di fuori di una città attonita le bare dei morti da coronavirus, così tante che il cimitero monumentale non riusciva più a gestire, le abbiamo viste tutti e Livia, quando si è reso conto di ciò che stava accadendo a Bergamo, non ci ha pensato un istante: ha subito confermato la propria disponibilità alla Croce Rossa a partire come volontario.
«È qualcosa che ho scelto di fare dal lontano 1986, quando sono entrato in Croce Rossa: per me è assolutamente normale mettermi a disposizione quando ci sono emergenze e ancor di più lo è stato stavolta, perché l’identikit dei professionisti richiesti per far fronte a quest’emergenza risponde perfettamente alla mia figura: sono pneumologo con attitudine all’urgenza - spiega il medico -. Perciò non mi sono sorpreso quando, una volta arrivato il mio profilo alla centrale operativa della Protezione Civile, sono stato immediatamente contattato per partire. Ho chiesto due giorni per finire i miei turni in distretto sanitario, dove da sei mesi lavoro come specialista in cardiologia e pneumologia, ho fatto i bagagli e domenica 24 marzo sono arrivato a Bergamo, prendendo servizio in ospedale il giorno successivo. Ringrazio la direttrice sanitaria di Asugi, la dottoressa Adele Maggiore, per avermi autorizzato a partire».
Dopo un colloquio con il direttore, Livia è stato assegnato al reparto di Pneumologia subintensiva, dove ha trovato una situazione difficilissima, ma anche una struttura e un’organizzazione invidiabile e una straordinaria disponibilità da parte dei colleghi. «L’ospedale è stato completamente trasformato per far fronte a una cifra spaventosa di malati da Covid-19: c’erano 600 persone trattate contemporaneamente per il virus, e nei giorni peggiori i posti comunque non bastavano».
Cinque reparti da 48 posti letto sono stati trasformati per accogliere pazienti con il virus. Oltre a questi c’erano 12 posti per la terapia subintensiva pneumologica, un’ottantina di posti per la terapia intensiva, una decina di posti per i pazienti in Covid-choc, ovvero persone che oltre all’insufficienza respiratoria presentavano anche danni circolatori. «In terapia subintensiva, dove ho lavorato, c’erano 120 postazioni con caschi C-Pap, che forniscono ventilazione assistita non invasiva ai pazienti con difficoltà respiratorie. Sono cifre inimmaginabili in circostanze normali: in medicina d’urgenza ne avevamo una decina, e non li abbiamo mai utilizzati tutti contemporaneamente».
Ad operare all’interno dei reparti Covid, intabarrati come palombari, ha trovato tanti colleghi di diversa provenienza e di specialità molto differenti tra loro, che si sono messi a disposizione per far fronte alla penuria di personale sanitario ad hoc nell’emergenza: qualcosa di mai visto, afferma Livia. Come d’altra parte sono assolutamente inediti alcuni terribili aspetti di questo virus: «Colpisce la solitudine dei pazienti, che circondati dal personale sanitario completamente bardato dalla testa ai piedi, di cui s’intravedono a malapena gli occhi, cercano un qualche contatto umano, uno sguardo o un tocco, che però in queste situazioni va evitato. Mi è capitato che un paziente mi prendesse la mano: avrei dovuto rimproverarlo, ma l’ho guardato e mi ha sorriso - racconta il medico -. Ma si è parlato poco di un altro doloroso e terrificante aspetto di questo virus: il peggioramento repentino che può causare, che è qualcosa di rarissimo nella pratica clinica - evidenzia Livia -. La domenica delle Palme, mio ultimo giorno di servizio, un paziente che sembrava in netto miglioramento è peggiorato all’improvviso, nel giro di pochi minuti. Abbiamo dovuto chiamare il rianimatore per intubarlo e non siamo riusciti a contattare la moglie, perché c’era un problema col suo telefonino. Spero tanto che ce l’abbia fatta».
Ma ci sono anche le buone notizie: «È riuscito a farcela il primo intubato di Bergamo, un 74enne che era in ospedale da quasi due mesi: quando me ne sono andato l’ho lasciato in buona salute. E alla mia partenza finalmente in terapia subintensiva erano rimasti solo 60 caschi in azione, la metà rispetto a quando sono arrivato: c’è stato un miglioramento importante e si vede». —
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