Il rebus degli immobili ecclesiastici di Trieste fra esenzioni e gestioni indipendenti
La Diocesi versa 15 mila euro di imposte comunali, quasi 5 mila in meno rispetto al 2023. La maggior parte dei beni sono di proprietà delle singole parrocchie o di associazioni autonome
Del patrimonio immobiliare ecclesiastico si discute spesso con animosità. In una parte non esigua della società ristagnano tuttora pregiudizi che imputano alla Chiesa cattolica, nel migliore dei casi, una gestione poco trasparente dei propri beni; dal canto suo, però, la voce flebile delle Diocesi non ha aiutato, almeno in anni recenti, a ripulire il dibattito da equivoci anche grossolani.
Sono considerazioni che ritornano nel momento in cui, superata la scadenza del 16 dicembre, pure la curia romana ha dovuto versare al Comune l’ex imposta municipale propria (Imu), di recente ribattezzata Ilia (che sta per imposta locale immobiliare autonoma). È l’occasione per diradare la nebbia accumulata attorno a via Cavana – sine ira et studio – tenendo in considerazione l’oggettiva delicatezza della materia e, come si vedrà, le incognite che ancora l’accompagnano.
I numeri e il taglio
I dati, innanzitutto. La Diocesi di Trieste per il 2024 ha versato 14.458 euro di Ilia, una cifra inferiore del 15 per cento rispetto all’anno precedente (dove l’ammontare superava i 19 mila euro). Se si sommano Ires (imposta sui redditi delle società) e Irap (imposta regionale sulle attività produttive), rispettivamente attorno ai 17 e 8 mila euro, si ottiene un totale di poco superiore ai 40 mila euro per l’anno corrente.
Una precisazione: questi numeri non compaiono nel bilancio diocesano appena pubblicato – di cui Il Piccolo ha raccontato i dettagli qualche giorno fa – ma saranno riportati nel bilancio 2025. Inoltre, i dati su Ires e Irap sono il risultato del saldo versato lo scorso giugno e relativo all’anno precedente, più l’anticipo del 2025 pagato a dicembre.
Precisazioni a parte, restano cifre che a chiunque, di primo acchito, sembrerebbero sorprendentemente basse, a maggior ragione visto il taglio del 15 per cento di Ilia da un anno all’altro.
L’economo diocesano, Claudio Stagni, assieme al vicario per l’amministrazione don Umberto Piccoli cercano perciò di spiegare il significato dei dati. Due, secondo i rappresentanti della Diocesi, sono i punti decisivi: il coacervo di parrocchie, associazioni ed enti di varia natura che gestiscono autonomamente i beni ecclesiastici (ciascuno con un loro bilancio e dunque una rendicontazione corrispondente separata); il quadro legislativo di riferimento non privo di margini di ambiguità.
Il coacervo di soggetti
Il primo punto si può sintetizzare con un (apparente) paradosso: nemmeno la Diocesi ha precisa contezza del patrimonio imponibile ecclesiastico a Trieste. In quella cifra di 14 mila euro, per citare alcuni esempi eclatanti, non rientrano né l’ex seminario di via Besenghi, né gli asili e le scuole elementari paritarie, o la casa “Le Beatitudini”. E nemmeno tutte le strutture che afferiscono in modo diretto alle singole parrocchie.
Questo perché, appunto, la Chiesa cattolica ha sviluppato col tempo un’amministrazione di fatto de-centralizzata dei propri beni. Di conseguenza, mapparli appare oggi estremamente difficile. Gli immobili che la Diocesi ha in gestione diretta sono pertanto numericamente risibili rispetto al patrimonio complessivo, sparpagliato tra decine di soggetti diversi.
Il quadro legislativo
Un altro fattore di ambiguità è dato dal quadro legislativo di riferimento. Il presidente della Corte di giustizia tributaria di Trieste, Dario Grohmann, afferma che i contenziosi sui beni ecclesiastici sono in diminuzione. Tuttavia, è la stessa “Nota di approfondimento” nel merito pubblicata lo scorso gennaio dalla Cei (Conferenza episcopale italiana), a confermare il contesto in evoluzione.
Oltre agli edifici di culto e agli immobili in cui si svolgono attività assistenziali – posseduti o in comodato d’uso – sono esentati dal pagamento dell’imposta municipale tutti i beni «pertinenti» al luogo di culto stesso. Dov’è proprio l’interpretazione del concetto di «pertinenza» a finire più spesso al centro dei contenziosi: comprende infatti l’abitazione del parroco e l’oratorio, ma dipende «dall’effettivo utilizzo» e da ulteriori prerequisiti. Proprio aspetti come questi, uniti all’oscillazione del valore catastale, possono spiegare la diminuzione del 15 per cento da un anno all’altro dei versamenti Ilia della Diocesi di Trieste.
I beni in gestione diretta
Fatte queste premesse, vediamo allora quali sono gli immobili per cui la Diocesi ha pagato l’imposta al Comune. La retta più onerosa è connessa ai garage al piano terra del palazzo vescovile, all’altezza di piazzetta Santa Lucia. Segue l’ex cappella dei santi Sebastiano e Rocco sempre in Cavana, passata da rudere a ospitare un negozio di profumeria, per il quale la Diocesi (che ha acquisito l’edificio dal Comune nel 2015) percepisce le entrate dell’affitto. La lista si conclude con i beni ricevuti in eredità, che includono un negozio in via Giulia e alcuni appartamenti, quando questi non sono già stati affidati in concessione per attività assistenziali. —
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