In Croazia il Neanderthal che c’è dentro di noi

Lo scenario dell’evoluzione della nostra specie è quanto mai affascinante. Circa 70mila anni fa un manipolo di Homo sapiens uscì dall’Africa. Giunse prima nel Medio Oriente e poi da qui si sparse prima a Est in Asia e poi verso Occidente, per colonizzare l’Europa.
Ma in questo viaggio non incontrò terre vergini, perché sia Europa che Asia erano già abitate dai Neanderthal, un’altra specie di ominidi che era uscita anch’essa dall’Africa più di 300mila anni prima. In realtà, Homo sapiens e Neanderthal non erano due specie diverse in senso stretto, tanto che l’accoppiamento tra i due era possibile e di fatto avvenne. Poi, per ragioni ancora misteriose, i Neanderthal sparirono e Homo sapiens rimase l’unica specie umana trionfante sul pianeta.
Un contributo fondamentale a questo scenario viene da uno studio pubblicato questa settimana su Science a firma di un prestigioso gruppo di antropologi del Max Planck di Leipzig, in Germania. Lo studio riporta l’analisi dell’intera sequenza di una donna di Neanderthal di 50mila anni fa i cui resti sono stati trovati in una grotta a Vindija, nel Nord della Croazia, a circa 20 km dalla città di Varazdin, non distante dal confine con l’Ungheria.
I risultati di questa prima sequenza di un Neanderthal europeo sono intriganti. Grazie a quegli accoppiamenti di oltre 30mila anni fa, circa il 2% del nostro Dna attuale è quello dei Neanderthal, e questa percentuale è ancora più alta negli individui asiatici. Almeno 16 varianti geniche che ci caratterizzano sono il frutto di questa eredità, tra cui quelle nei geni che controllano i livelli di colesterolo e vitamina D, e determinano il rischio di sviluppare varie malattie, tra cui l’artrite reumatoide e la schizofrenia.
Queste conclusioni hanno anche dei risvolti eticamente sdrucciolevoli: gli africani, non avendo mai incontrato i Neanderthal, queste sequenze di Dna non le posseggono proprio. Ancora una volta il principio di uguaglianza tra gli uomini e il senso di appartenenza a una medesima specie non trovano basi sull’uguaglianza genetica (come si tendeva a pensare negli anni ’70) ma su un codice di valori morali ed etici che devono essere culturalmente condivisi.
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