In Istria spunta il filo spinato che separa genti e migranti

di MAURO MANZIN
Si scrive Siria, si legge guerra, odio, dolore e profughi, un fiume di profughi, che ha esondato lungo la rotta dei Balcani per raggiungere la terra promessa, la Germania o più su, la Svezia. Un viaggio lungo, costellato di morti, annegati nel breve tragitto che separa la Turchia dalle isole greche, una strage degli innocenti con centinaia di bimbi spariti tra i flutti che cantò Omero. Un fiume di persone che supera il milione, in cerca di pace, lavoro, ma quanto può offrire loro l’egoismo dell’Europa? Quell’Europa che erge subito nuovi muri e fili spinati forse per delimitare più le costole di se stessa che cercare di fermare un’onda da tsunami inarrestabile.
Così alla fine di quest’anno abbiamo visto spuntare il filo spinato in Istria. Neanche la guerra d’indipendenza del 1991 potè tanto. Allora ci si limitò a qualche cavallo di Frisia sulle strade. Oggi tutti vogliono segnare le piccole patrie, tutti si vogliono chiudere nei propri castelli più o meno fatati. Fino a voler uccidere quella convivenza che quasi magicamente ha contraddistinto l’Istria in questi anni, con croati, italiani e sloveni uniti nel quotidiano sforzo di sopravvivenza, diversi nella lingua, uniti nello spirito nel legame alla propria terra madre.
All’origine dell’onda c’è l’Isis, o il califfato, quella sorta di stato islamico estremista e radicale che rivendica la sharia. Oggi chi ha contribuito a formarlo, leggi Stati Uniti durante la guerra in Iraq, esita a combatterlo, non sa come muoversi, schiacciata dall’Iran da una parte e dall’alleato di sempre, Israele, dall’altra. Ecco allora lo spazio in cui abilmente si è infilato Putin, lo zar, l’ex uomo del Kgb, astuto, abile mestatore che ridà alla Russia quel ruolo di grande potenza che da qualche tempo si era un po’ offuscato. In mezzo l’enigmatica figura del turco Erdogan accusato di fare affari petroliferi con l’Isis e pronto ad approfittare della situazione per praticare il suo sport preferito: la caccia al curdo.
Gli attentati di Parigi del 17 novembre scorso poi hanno riportato tutti tragicamente con i piedi per terra. L’Isis è tra di noi, è in Europa, muove le sue pedine nate e creciute in Europa per uccidere. Manipola l’onda di migranti per far passare anche i suoi miliziani e infiltrarli così nelle operazioni terroristiche ancora in fieri. E l’Europa balbetta, innalza inutili fili spinati, si rinchiude nelle piccole patrie per sentirsi più al sicuro, facendo così però solo il gioco del terrorismo di marca islamica. Ci sono poi le stragi dell’Isis anche in Africa, ma all’Occidente progredito non importano, i loro morti non vanno in prima pagina. Senza dimenticare lo scenario della Libia e l’inesauribile flusso dei disperati sui barconi verso l’Italia. Italia che si scopre più xenofoba e inizia a lasciarsi adescare dalle sirene leghiste con i loro canti anti-stranieri. Italia che non trova un suo ruolo all’interno di un’Europa già di per sè disunita e che tenta di fare la voce grossa con la Germania ben sapendo di avere troppo scheletri nell’armadio per permetterselo.
Senza dimenticare la “pentola” dell’Ucraina, L’Isis ce l’ha fatta dimenticare (e Putin se la ride), ma anche lì si continua a morire, si continua a generare profughi. Tutti scappano da ovunque, il mondo si sta rivoltando, nell’indifferenza dei poteri forti, facendo gonfiare il portafiglio di abili speculatori finanziari diventati oramai i versi statisti. Unico avvenimento che non ha determinato esuli è stato il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba. Obama lo ha fatto nell’ultimo periodo del suo mandato, non aveva nulla da perdere, si è messo al passo con la storia aprendo le porte anche a un bel po’ di affari remunerativi per le sue multinazionali. Forse si è ricordato che gli è stato assegnato il Nobel per la pace.
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