La lectio di Velasco a Trieste: “Correggere è importante, giudicare è dannoso”

Il coach argentino a Trieste per la laurea ad honorem: “Non è coraggioso chi non ha paura, ma chi la sa gestire. Da studente volevo fare il professore di filosofia”

Piero Tallandini
Julio Velasco a Trieste per la laurea ad honorem (Lasorte)
Julio Velasco a Trieste per la laurea ad honorem (Lasorte)

Iniziando la sua lectio magistralis Velasco ha voluto anzitutto “ringraziare l’Università di Trieste e la pallavolo, i miei giocatori, lo staff. Tutto quello che ho avuto l’abbiamo fatto insieme, ringrazio la famiglia e gli amici, ringrazio l’Argentina. Ho saputo che oggi c’è uno sciopero nelle università italiane per i precari e volevo dare la mia solidarietà”.

“Anche se sono abituato a parlare in pubblico, sono emozionato” ha ammesso. Velasco ha spiegato che da studente voleva fare “il professore di filosofia” e ha ricordato il periodo all’università, segnato drammaticamente dalla dittatura: “Avevo un amico, compagno di facoltà e di pallavolo, assassinato durante il golpe del ‘76 (e qui è si fermato per un momento di commozione, ndr). Io ho dovuto interrompere gli studi, mi mancavano pochi esami, ma l’unica cosa buona che hanno fatto i militari per me è stato che proprio a quel punto ho cominciato ad allenare la pallavolo. Vorrei ricordare anche mia mamma che voleva tanto che i suoi figli avessero una laurea. Il mio fratello più piccolo, che studiava medicina, è stato sequestrato poi è riuscito a scappare e non è riuscito a finire. Questa è la prima laurea per noi”.

Consegnata a Trieste la laurea ad honorem in Psicologia a Julio Velasco
La consegna della laurea e del classico "tocco" a Velasco (Lasorte)

Quindi, Velasco ha proseguito con la sua lectio dal titolo: “Allenare la mente”. “Il concetto mens sana in corpore sano è ormai sorpassato, oggi si sa che l’essere umano impara con il movimento fin dai primi anni di vita e dopo concettualizza e crea cultura. Lo sport visto è sempre stato visto come attività fisica, ma pensiamo a quello che fa un giocatore: legge e interpreta una situazione e deve farlo in centesimi di secondo. Non è consapevole di quello che fa, perché l’elaborazione è troppo veloce, ma non è vero che non è un’operazione razionale”.

L’intuizione non è una magia, ma è un’operazione molto veloce del cervello. Nella sua memoria motoria, il giocatore deve cercare la cartella giusta, trovare una soluzione in millesimi di secondo. Oppure, elabora con la creatività una soluzione nuova per risolvere il problema. La grande rivoluzione metodologica dello sport è stata data dalla conoscenza di come funziona il cervello. Il processo mentale del giocatore è poi condizionato dallo stato fisico e dal rapporto con l’avversario. Cosa vuol dire essere veloce, ad esempio? Dipende da quanto sono veloci gli altri: devo trovare un altro modo per battere il mio avversario se lui è più veloce di me. Poi sono le emozioni che condizionano, ad esempio l’obbligo di vincere. Spesso i tifosi e, devo dirlo, i presidenti non lo capiscono. Dicono: “Se avete vinto finora vincerete sempre”. Ma non c’è niente di più difficile che ripetere una vittoria, non c’è niente di più effimero della vittoria”.

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“E poi c’è la questione della mentalità, il contesto generale di una comunità o di un piccolo microcosmo come una squadra. Si deve creare un piccolo microcosmo di mentalità produttiva, efficace, che aiuti. L’io non diventa mai noi, sopravvive sempre. Il punto è che per costruire una squadra diversi io devono funzionare meglio insieme, non perdere l’identità dell’io. Non è giusto far perdere l’identità a un giocatore. Devono convivere gli interessi individuali. Perché bisogna giocare di squadra? Perché conviene. Lo so, è una risposta un po’ cinica. Dobbiamo cercare allora di capire l’altro partendo proprio dalla base: l’altro non è come noi. Così come sono diversi maschi e femmine. Io sono io non sono un settantenne, allora perché diciamo “i giovani” mettendoli tutti nella stessa borsa, tanto più per criticarli? Se vogliamo che giochino insieme come squadra dobbiamo capire come funziona ognuno di loro”.

Per far dare loro il meglio si deve partire da quello che fanno già bene, dal loro punto di forza e quello metterlo in evidenza. Poi si lavora per correggere l’errore. Uno, due, non di più. A volte in nome della perfezione vogliamo migliorare tutto, ma nessuno può cambiare dieci cose contemporaneamente. Cos’è un salto di qualità? Se metti l’acqua a scaldare prima è fredda poi calda, ma è sempre acqua. Però a 100 gradi allora sì che diventa un’altra cosa, diventa vapore. Dobbiamo fare così per i giovani giocatori, mettere poca acqua e tanto fuoco, perché se succede il contrario ci mettiamo troppo tempo, non ci riusciamo e diamo la colpa all’acqua”.

“Che differenza c’è rispetto alla “Generazione dei fenomeni”? Il mondo è diverso. All’epoca non c’erano neanche i cellulari, ma tra i giovani di oggi e i giovani di allora non c’è grande differenza, c’è grande differenza tra i genitori che oggi pensano che la minima sofferenza per il loro figlio o la loro figlia può essere una cosa terribile e indelebile. Invece le piccole difficoltà sono come i batteri per i bambini, sviluppano il sistema immunitario e li fanno diventare più forti. Se trattiamo i giovani da deboli saranno deboli. E dobbiamo combattere l’idea che l’errore sia una dimostrazione di inadeguatezza, di incapacità. Perché i ragazzi sono così bravi nell’usare i dispositivi elettronici? Perché nessuno li giudica, li usano, imparano dall’errore e si correggono”.

Correggere è importante, giudicare è dannoso: dobbiamo correggere i giovani spiegando loro cosa è giusto e cosa non lo è, ma giudicarli li fa sentire solo inadeguati. Questo è importante ancora di più per le ragazze che per secoli sono state abituate a pensare che il loro errore era peggiore di quello dei maschi, loro stesse si giudicano troppo, ma non c’è modo migliore di imparare che sbagliando. Io voglio giocatori e giocatrici autonomi e autorevoli l’ho detto alle mie atlete della Nazionale che loro devono sapere di pallavolo, come giocare, come curare il loro corpo. E devono essere autonome, perché sul 24 pari i giocatori sono soli in quei momenti di grande tensione e stress. Certo, è importante creare un sistema ma poi ci vuole autonomia”.

“Non è coraggioso chi non ha paura, perché chi non ha paura è un incosciente – ha concluso Velasco –, è coraggioso chi sa gestire la paura, la sa combattere e riesce a fare le cose che servono, malgrado la paura”. Al termine, lunghissima standing ovation del pubblico in un’aula magna gremita.

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