La finta rapina con la spada del samurai

Chiesto il rinvio a giudizio per calunnia dei gestori del New Marillon di Borgo San Mauro teatro di un colpo mai avvenuto

TRIESTE I due baristi si erano inventati tutto. Avevano incolpato quelli che, secondo la loro ricostruzione, erano i banditi della katana. I quali, appunto, avevano messo a segno un colpo nel loro locale New Marillion di Borgo San Mauro. Ora chi ha denunciato la finta rapina è finito nei guai. Accusa: calunnia. Si tratta di Valerio Valente, 36 anni, ed Emanuela Boni, 23, che, proprio in forza della loro falsa denuncia, erano riusciti addirittura a far arrestare dai carabinieri Simone Augurio Valente, fratello di Valerio, e gli amici Giovanni Caruso e Vasile Jucan. I quali poi erano stati liberati dal gip Giorgio Nicoli per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Ad assisterli l’avvocato Maria Genovese.
Ora Valerio Valente ed Emanuela Boni sono accusati di calunnia perché, come emerge nella richiesta di rinvio a giudizio del pm Matteo Tripani, il magistrato titolare del fascicolo, i due hanno incolpato falsamente tre persone. Avevano detto: «Solo loro i banditi. Siamo ancora sotto choc». Ma la loro era solo una finta. Sono difesi dagli avvocati Maura Resciniti e Giancarlo Muciaccia.
La data della finta rapina con la katana è quella dello scorso 15 ottobre. All’inizio le due asserite vittime avevano dichiarato ai carabinieri di essere state subito minacciate con una spada a lama curva lunga almeno 70 centimetri utilizzata dai samurai giapponesi. Poi, terrorizzati, erano fuggiti dal locale ed erano andati in caserma a chiedere aiuto.
Ma, come aveva rilevato il gip Nicoli, nel verbale dell’interrogatorio di garanzia, al termine del quale aveva liberato i tre sospettati, «pare di gran lunga più verosimile la dinamica della rapina riferita da Simone Valente, una delle persone accusate in quel momento, e cioè che il fratello Valerio, dopo averlo minacciato, si era allontanato dal bar teatro della presunta rapina in compagnia della sua compagna non appena saputo che lo stesso Simone stava chiamando i carabinieri. Insomma il paradosso era stato che a dare l’allarme, si è poi saputo, era stato il presunto rapinatore e non la vittima. Successivi accertamenti degli investigatori avevano evidenziato «che il locale di Borgo San Mauro era stato dalla primavera gestito da Valerio Valente, ma questi, non essendo in grado di far fronte ai debiti, aveva chiesto aiuto al padre e al fratello Simone per poterne proseguire, sia pure come dipendente, la gestione nell’ambito di una impresa familiare».
Erano così emerse gravissime incongruenze e in breve si era delineata l’ipotesi che fosse stato lo stesso Valerio Valente (e cioè l’asserita vittima) a minacciare il fratello con la katana. Ma era anche emerso che non erano stati razziati i soldi dalla cassa e che la porta posteriore, da dove sembrava fossero fuggiti i banditi, era stata forzata dai gestori. Insomma, solo una messinscena.
 

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