“La prima persona” il racconto di Lucia Zacchigna premiato da Il Piccolo

Il racconto scelto nell’ambito della XIX edizione del Concorso di scrittura femminile Città di Trieste

Lucia Zacchigna
Lasorte Trieste 24/10/23 - Magazzino 26, Sala Luttazzi, Premiazioni Concorso di Scrittura Femminile
Lasorte Trieste 24/10/23 - Magazzino 26, Sala Luttazzi, Premiazioni Concorso di Scrittura Femminile

TRIESTE Si sono svolte ieri le premiazioni delle vincitrici della XIX edizione del Concorso internazionale di scrittura femminile “Città di Trieste”, iniziativa promossa dal Comune assieme alla Consulta femminile con lo scopo di far conoscere il talento delle donne. “Il Piccolo”, media partner dell’evento, ha scelto di premiare il racconto “La prima persona” di Lucia Zacchigna. Lo riportiamo qui sotto:

LA PRIMA PERSONA

La prima persona che conobbi arrivato a Trieste fu Daniela: seppi il suo nome dopo qualche tempo, e solo ben più tardi scoprii che nessuno dei miei colleghi lo conosceva; anzi li sorprese sapere che le parlavo. La incontrai una sera tardi davanti a ‘Serena’s’, la boutique del centro accanto a uno dei caffè storici descritti in tutte le guide turistiche; capii subito che lei non era una cliente ma si limitava ad accoccolarsi nel piccolo atrio formato dalle due vetrine del negozio per cercare un po’ di tepore e trascorrervi la notte: quella era la camera da letto di Daniela.

Sapevo che qui c’erano tanti clochard, come amava chiamarli il quotidiano locale per dare loro e alla città un tono quasi romantico: spesso invisibili durante il giorno, celati in qualche ‘centro pubblico sociale’ o, nelle belle giornate, a spasso nei parchi a fingere di dar da mangiare ai piccioni.

Quando scendeva il buio, però, ecco apparire le loro sagome umane con grandi fardelli al seguito, di cui si rivestivano diventando a loro volta informi fagotti. Incontrai Daniela nel mio primo giro di sorveglianza notturna: erano le 10 di una notte ancora tiepida, giravo in bicicletta nella zona pedonale che mi era stata assegnata per controllare che i negozi sotto la nostra tutela fossero al sicuro.

Daniela stava seduta su un piccolo seggiolino da picnic e sfogliava una rivista al chiarore delle vetrine: era palese che non fosse una passeggiatrice a caccia di clienti né che fosse in attesa di qualche amica per fare due chiacchiere. Mi fermai: chiuse la sua rivista e la infilò in una specie di cartellina, alzò lentamente gli occhi e, con un accenno di sorriso, mi salutò “Buonasera, signora guardia!”.

Alla mia espressione confusa allargò il sorriso “Oh, mi scusi, non mi ero accorta che lei è nuovo. Si sapeva che erano in arrivo rinforzi”. Un angolo delle labbra si alzò in una specie di sorriso un po’ sbieco e capii che la frase era ironica.

Incerto, mi limitai a chiedere “Tutto a posto? Ha bisogno di qualcosa?”, mi sentii ridicolo a fare domande simili: lei, a differenza mia, lì era di casa. Accentuò il sorriso, che scolpì qualche ruga chiara nel viso brunito dal sole, e con tono garbato “Tutto a posto. Buon lavoro e buona notte a lei”, si voltò verso le vetrine come se le stesse ammirando per la prima volta: lo presi per un congedo e me ne andai.

Alla fine del giro, dopo aver visto vari altri ingressi di negozi abitati, ripassai davanti a Serena’s: c’era un gran cumulo a righe variopinte a celare la donna dalla voce profonda. Sì, perché di quel primo incontro, la cosa che mi colpì di più fu la voce: un po’ rauca come di chi sta tanto all’aria aperta ma con una sfumatura di… signorilità, mi venne di pensare.

Chissà chi era, quella Voce: iniziai a chiamarla così, tra me e me. Come novizio nel gruppo dei sorveglianti mi toccavano sempre le notti, e il mio giro iniziava da Serena’s; trovavo sempre la Voce intenta a fare qualcosa, come mi stesse aspettando e non volesse 2 farsi vedere inattiva: di solito leggeva dei giornali o un libro, oppure scriveva.

Mi sentiva arrivare, girava lo sguardo nella mia direzione, sorrideva e “Buonasera, signora guardia!” e le rispondevo “Buonasera! Tutto a posto?”, al suo cenno riprendevo la bici e continuavo il mio giro. Una sera le chiesi “Che sta leggendo?”.

Fu sorpresa, non si aspettava una domanda così personale. Girò verso di me la rivista che stava sfogliando e lesse il titolo “Guardi! “Vestirsi a cipolla per affrontare il freddo”: chi lo sa fare meglio di noi? Potremmo dare degli ottimi suggerimenti” rispose socchiudendo gli occhi e sporgendo il mento, quasi in segno di sfida. Seppi solo rispondere “Ha ragione”, prima di allontanarmi. Dopo qualche giorno presi coraggio, scesi dalla bici e “Non mi sono presentato: mi chiamo Enrico” e le tesi la mano. Titubante si alzò dal seggiolino “Daniela” e mi strinse la mano, non troppo forte ma in modo sicuro.

La pelle era calda, nonostante le temperature iniziassero ad abbassarsi, e ruvida; dai suoi abiti si sprigionò, col movimento, un lieve sentore di stantio, di cui entrambi fummo consapevoli e palesemente indifferenti.

Capii qualcosa di più delle sue dimensioni, che fino a quel momento per me erano state “seduta sul seggiolino” o “massa sotto le righe variopinte”: intorno al metro e sessanta, pur infagottata sotto strati di abiti mi parve piuttosto minuta ma di grande energia; la carnagione scurita dalla vita, suo malgrado, all’aperto senza le mirabolanti protezioni UV di cui parlava la vetrina della farmacia vicina; gli occhi marroni mi fissavano attentamente, per capire cosa nascondesse questo interesse nei suoi confronti; aveva sempre la testa coperta da qualche berretto ma immaginai che lì sotto nascondesse lunghi capelli castani forse appena venati di grigio, visto che le davo una cinquantina d’anni.

Tutto questo in pochissimi istanti, perché subito si sedette e divenne la solita sagoma. Ripresi la bici e ripartii per il mio giro; al ritorno, quando ripassai davanti a Serena’s, dalle righe variopinte sbucava un paio di occhi che seguì il mio passaggio.

La stagione avanzava e con questa il freddo, che in bici sentivo più acuto: a casa, nella mia isola, il calore dell’estate si prolungava per tutto l’autunno, e risentivo dell’umidità e della nebbia che invece caratterizzavano in quel periodo Trieste; iniziai a indossare il giaccone pesante imbottito e osservai che anche gli abitanti notturni della città aumentavano le loro dimensioni e cercavano ricoveri più riparati. Una sera di bora trovai Daniela, seduta nel profondo del suo atrio, avvolta in una di quelle coperte metallizzate da primo soccorso da cui spuntavano soltanto gli occhi e la sua voce “Freddo, eh, stasera… Anche tu sei vestito più pesante, Enrico”: fui consapevole del tepore che mi circondava e del vento che intirizziva Daniela.

Da un angolo della coperta spuntarono quelli che, senza dubbio, erano i suoi piedi, ma dovevano essere ricoperti da strati di carta: mi ricordai che mio padre mi raccontava che il nonno, quando usciva in bicicletta d’inverno, si metteva dei giornali sotto la giacca per tenere al caldo i polmoni: la miseria è sempre uguale.

Quando rientrai Daniela e le sue righe colorate erano ben nascoste sotto quella coltre dorata. 3 Col tempo Daniela mi raccontò una storia, breve, di amori mal finiti e lavori dalla breve durata, di vagabondaggi per varie città finché, verso i quarant’anni, era arrivata qui: le era sembrato che fosse questa la sua meta e ci si era fermata, trovando strutture accoglienti di giorno e commercianti di buon animo che ne custodivano le notti.

Mi raccontò qualche accorgimento che semplificava la vita a lei e ai suoi ‘compagni di dormitorio’: intanto le utilissime coperte metallizzate, che recuperavano quando qualcuno di loro veniva portato in ospedale per malanni che non potevano essere risolti dai volontari che li assistevano. Poi, nelle giornate di bora scura, accumulavano gli ombrelli semi rotti che finivano nelle immondizie, e che per loro diventavano essenziali.

Contavano anche sul buon cuore di qualche commessa o cameriera, che procurava loro, dopo qualche giorno di inutile attesa, guanti o copricapi che distratti clienti avevano dimenticato in giro: Oliviero, che dormiva all’ingresso della farmacia, sfoggiava un bel berretto con pelo e paraorecchie! Poi mi raccontò, come fossero favole, le storie di altri: Marcus scappato dalla guerra della ex Jugoslavia, Oliviero che si era perso in gioventù con le droghe, Anja diventata troppo vecchia per continuare a ‘fare la vita’ e che ora insegnava ricamo al centro sociale.

Mi parlò di Jacques: le sue mani erano diventate troppo anziane per scorrere sulle corde dell’arpa celtica, con cui aveva girato mezza Europa, e per qualche tempo aveva insegnato pianoforte ai ragazzini in un ricreatorio: le giornate le passava lì, le notti nell’atrio con Daniela. “Una notte lo sentii respirare forte, poi rantolava. Suonai alla farmacia qui vicino che era di turno, arrivò l’ambulanza che lo portò via. Non tornò più” e le tremò la voce. Non le chiesi quanto tempo prima fosse successo: pareva ieri.

Dicembre è un brutto periodo per chi, come Daniela e tutti quelli che vivono in strada, si trova da solo: altoparlanti inondano le strade di cori gioiosi, viavai di gente piena di pacchetti, negozi e locali sempre pieni disturbano chi vorrebbe un po’ di pace almeno di notte… non vedevamo l’ora che tutto quel caos finisse. Non potevo paragonare me a loro: non mi ero fatto nuove amicizie, e il lavoro mi impediva di allontanarmi, ma avrei potuto sentire i miei familiari al telefono; Daniela e gli altri no, così decisi di passare Natale con loro.

Chiesi in ditta che ne parlassero col proprietario della Galleria d’arte, che al momento non ospitava mostre, che mi consentì di aprirla per la giornata; con la tredicesima ordinai una ventina di pasti alla Gastronomica AnnaFerrara, la cui capocuoca accettò di scaldarli alla mattina e di mangiare con noi; chiesi a Daniela di invitare i senzacasa che abitavano il mio giro (anche quelli che non conoscevo perché non ero mai riuscito a vedere da svegli). Senza retorica, trascorsi il Natale più amorevole di sempre. Passate le feste c’era poca gente in giro di sera, vari negozi chiusi per brevi ferie ‘bianche’, e il freddo si fece più intenso; presi una settimana di licenza e andai a trovare la mia famiglia.

Quando 4 tornai scoprii che Anja se n’era andata, ma non in un’altra città: quando le partenze erano definitive, chi rimaneva si spartiva i pochi averi rimasti, così Daniela si era guadagnata i doposcì di Anja. Una sera trovai Daniela già imbozzolata: le chiesi se stesse male, mi rispose con la voce più rauca di sempre e in tono pungente “Avrò preso freddo andando a fare shopping”; le toccai la fronte con due dita, era bollente.

Volevo chiamare l’ambulanza ma rifiutò perché non si fidava degli ospedali: troppi dei suoi amici, soprattutto Jacques, non erano più tornati dopo quel viaggio. Insistetti ma fu irremovibile, così partii per il mio giro di sorveglianza. Quando tornai vaneggiava per la febbre, allora decisi. Trasalì al suono della sirena e mi fulminò con gli occhi: non capii, così chiesi di andare con lei, e vedendo la divisa mi fecero salire.

Usarono le cesoie per aprire il suo bozzolo: strapparono i cartoni e tagliarono la coperta d’oro, quella a righe variopinte che scoprii essere stata un copriletto matrimoniale, poi un paio di pantaloni da tuta rosa in ciniglia e, sotto, dei pantaloni in lana marrone gessata da uomo e una spessa calzamaglia nera. Tagliarono anche il prezioso giaccone imbottito (bastava aprire la lampo, mi sembrò una crudeltà inutile) e i grossi maglioni, gettarono in un angolo i giornali che teneva a contatto della pelle. Misurarono temperatura, pressione, saturazione, mentre l’ambulanza correva a sirena spiegata. Non riuscivo a guardarla negli occhi. Sentivo solo il suo respiro grosso di paura disagio rabbia e bronchite. Gettarono come immondizia le sue cose mentre la barella veniva portata in fretta negli ambulatori: raccolsi coperta d’oro, copriletto, pantaloni, giaccone, i doposcì e le grosse calze, il berretto e i guanti, e li avvolsi nei cartoni che erano rimasti nell’ambulanza.

Dopo un paio d’ore mi dissero che era piuttosto grave ma se la sarebbe cavata, e così fu; passai a trovarla qualche volta, anche quando andò in sanatorio, ma rifiutò di vedermi. Rassicurai i suoi amici e quando seppi che stava per essere dimessa le feci trovare le sue cose ben piegate nel suo atrio: avevo fatto ricucire tutto da una ‘mendaressa’ (le chiamano così da queste parti le rammendatrici) ed era venuto un ottimo lavoro.

Ma temevo il momento del suo ritorno. Mi parlò seduta sul seggiolino in fondo all’atrio, la luce dei lampioni illuminava soltanto le sue mani serrate poggiate sulle ginocchia, il viso in ombra: “Siamo lì sotto gli sguardi di tutti: sguardi che si soffermano, o scivolano via, o non ci colgono. Siamo sagome, bozzoli che mai diventeranno farfalle. I pantaloni di lana marrone erano stati di mio padre, l’unica cosa sua che ero riuscita a conservare.

Ti ringrazio di averli salvati ma hai passato il limite del pudore, hai scoperto di cosa è fatta la mia corazza e non dovevi farlo. Non fermarti mai più a parlare con me”, si alzò e capii che mi congedava: salii sulla bicicletta e me ne andai, mentre lei ridiventava bozzolo. Chiesi di essere trasferito in un’altra zona della città, dove chissà se avrei deciso di conoscere il nome di qualcun altro.

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