Lezioni di storia. La gioia di sentirsi italiani si trasformò presto in profonda infelicità

Si intitola “La città della cultura. 1918: finis Austriae” la lezione di Quirino Principe con cui riprende, domenica alle 11 al Teatro Verdi, il ciclo di conversazioni intitolato “I giorni di Trieste"
Lasorte Trieste 12/01/14 - Piazza Verdi, Teatro Verdi, In Coda per la Lezione di Storia
Lasorte Trieste 12/01/14 - Piazza Verdi, Teatro Verdi, In Coda per la Lezione di Storia

 

Si intitola “La città della cultura. 1918: finis Austriae” la lezione di Quirino Principe con cui riprende, domenica alle 11 al Teatro Verdi di Trieste, il ciclo di conversazioni intitolato “I giorni di Trieste”, che la casa editrice Laterza organizza con il Comune, “Il Piccolo” e il contributo di Acegas-Aps del gruppo Hera.

 

di QUIRINO PRINCIPE

Domenica 3 novembre 1918, militari combattenti con uniformi delle forze armate del Regno d’Italia (nato soltanto cinquantotto anni prima) si materializzarono per la prima volta agli occhi dei triestini, e in quella Trieste che era stata per quasi tre generazioni un irredentistico sogno. Fra le truppe italiane accolte con tripudio, serpeggiava certamente, scuotendo l’immane stanchezza di tre anni e mezzo di guerra, una vena di sincera commozione.

Pochi mesi prima, dopo le catastrofi tattiche, strategiche e morali del 1917, della guerra, il raggiungimento di quell’obiettivo era sentito dai più come un’illusione da abbandonare. Ora diveniva il punto di partenza verso un imprevedibile futuro. Ma c’era davvero di che esser lieti? Meno di cinquant’anni dopo, nella “plaquette” «Mito e realtà di Trieste» (Scheiwiller, Milano 1966), Enzo Bettiza osservò: «Quel giorno, Trieste era pazza di felicità, oggi non può nascondere d’esser pazza d’infelicità».

Nel 2014, a un secolo esatto dall’accendersi della prima guerra mondiale, lo stato d’animo diffuso in città nel 1966 non si è rasserenato, e probabilmemnte si è rabbuiato. È un pesante fardello, il dover condividere il male di vivere che uno Stato incapace di raddrizzarsi infligge a tutti i suoi cittadini, distruggendo a ciascuno e senza eccezione, prima o poi, ogni frammento di speranza.

Già le prime novità introdotte nella vita quotidiana, nella sfera dell’economia e del lavoro, diedero ai triestini la sensazione di un futuro più fragile, da costruirsi su un terreno malfermo. Si aveva la percezione di vaste lacune e di zone grigie e crepuscolari nel rapporto con quel futuro: la cultura triestina, raffinata e individualistica (sovente, solipsistica)e e perciò ricca di nevrosi, ne avvertì il senso di “horror vacui”, e reagì inoltrandosi attraverso porte strette, analizzando microcosmi complicati e ossessivi che immediatamente si rivestivano di simbologia implacabile e accennavano a un microcosmo dominato dalla solitudine.

Se questa fu una condizione umana non infetta da ideologia (questo fu sempre un lato forte e un connotato di pregio della cultura triestina) e se questa cultura parlò per lo più con tono “unpolitisch” e “sine ira et studio”, è innegabile che a ciò si aggiungeva un referente parallelo: anche le più irredentistiche, anche le più italianizzanti voci dell’anima e dell’energia intellettuale di cui la città fu sempre bene provvista finivano, consapevolmente o inconsapevolmente, confessandolo o no, per sentirsi orfane o vedove della “defonta”, dell’Austria-Ungheria. Lo Stato absburgico, ora che non esisteva più, si configurava come la normalità, la vita prevedibile e misurabile, dove il “non accadere” aveva in sé il gradevole lato della sicurezza, da rimpiangere e magari, al tempo stesso, da deridere, ma con affetto.

Questa tonalità della psiche è il tema di un capolavoro del 1937, “La rosa rossa” di Pier Antonio Quarantotti Gambini, ed è l’elemento complementare, non traumatico, di ciò che a Trieste, in Italia, in Europa e altrove, fu il grande trauma della nevrosi e dell’autoanalisi (autoanalisi, anche, della vecchiaia e della morte, paragonabile alla musica di Gustav Mahler dai triestini del 1905-1911 molto amato), e il trauma della vecchiaia e della morte è naturalmente il lascito letterario e filosofico di Italo Svevo, e più tardi, in dimensioni volutamente ridotte ed elegantemente reticenti, del “Segreto” (1961), romanzo dalla paternità inizialmente misteriosa, in realtà scritto da un coltissimo e aristocratico “amateur”, Giorgio (o +Guido?) Voghera.

Ma tutto questo è avvolto da una più ampia sfera d’irradiazione: quella del lavoro scientifico compiuto (talvolta, a Trieste solo avviato) da matematici (appunto, Guido Voghera) filosofi (Giorgio Fano), fisici, psicologi, psicoanalisti: e di questi ultimi, ogni triestino degno di questo nome dovrebbe ristudiare l’opera e gli esiti. I loro nomi, i più illustri, furono Eugenio Tanzi, Edoardo Weiss, Franco Basaglia, Fabio Metelli.

Osserviamo questo panorama da una media distanza. L’oggi, ossia la quasi metà del primo ventennio del secolo XXI («eheu, fugaces...»), osserva l’ordinato e leggendario-aneddotico “mondo di ieri” paragonandolo a un’odierna “contemplazione del disordine” molto più amara di quella denunciata subito dopo la seconda guerra mondiale dall’arroventato libro di Silvio Benco. L’osservazione rivela come la cultura triestina tra il 1914 e il 1960, attraverso fasi storiche dai connotati esteriori diversissimi, sia stata sempre acuta nel capire l’Italia e nell’indovinare gli umori segreti della cultura italiana, anche facendoli propri, ma, in proporzione stranamente diretta (non “inversa”, come qualcuno ha creduto), essa sia stata anche un impulso di rimozione dei lati deboli e dei rami secchi dell’italianità, soprattutto filosofica e letteraria. Si ha l’impressione che, dopo il festoso 3 novembre, qualcuno a Trieste si sia domandato: «E adesso, che ce ne facciamo dell’Italia?», e che qualcuno in Italia si sia domandato: «E adesso, che ce ne facciamo di Trieste?».

Un quasi aforisma sulla finis Austriae. In Occidente, il terzo decennio del secolo XX (“gli anni Venti”) è l’epoca delle maggiori e più destabilizzanti novità apparse nel Novecento. Il 1918 ne è la porta d’ingresso. Per Trieste, è tante nuove realtà: la fine di un lungo dominio soltanto in parte sentito come “straniero”, l’annessione a uno Stato italiano per la prima volta esistente nella storia, una vocazione internazionale “capovolta” per cui ciò che prima era il “dentro” diviene il “fuori” e viceversa. Crescono intelligenze nuove nel campo della psicoanalisi (Weiss), della musica (Visnovitz, rivelato ai triestini da Massimo Favento), della letteratura (Saba, Stuparich, Bazlen, il clamoroso “caso Svevo”). La finis Austriae è, in germe, la nascita del mito absburgico, paradigma di una legge dello spirito: la grandezza deve morire, per poter vivere.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo