L'intervista, Magris: "Quanti ricordi nel mio Piccolo"
Da ragazzo sognavo di scrivere sul "Piccolo", per farmi notare da una bella ragazza. Nel 1961 il mio primo articolo, un elzeviro su "Solitàe" di Biagio Marin

Lo scrittore Claudio Magris
TRIESTE. «I due giornali che leggo ogni giorno sono il “Corriere” e il “Piccolo”. Leggo molto spesso anche ”La Repubblica” o altri quotidiani, e quasi con un interesse specifico maggiore, ma ”Il Piccolo” e ”Il Corriere” sono per me pane e companatico». Claudio Magris, scrittore e germanista, firma illustre del ”Corriere della Sera”, portabandiera della cultura triestina nel mondo, da qualche anno nella lista dei papabili al premio Nobel, ha un legame antico con ”Il Piccolo”, il giornale della città - «la sua finestra sul mondo» dice - al quale ogni tanto volentieri collabora.
«Il mio primo articolo sul ”Piccolo” fu pubblicato 50 anni fa, il 25 agosto del 1961, quando ero ancora un ragazzo. Era un elzeviro su ”Solitae”, la raccolta poetica di Biagio Marin. Prima avevo solo pubblicato qualche articolo su “Lettere italiane” di Lavagetto, mio maestro di letteratura italiana. Il primissimo articolo, invece, sul “Messaggero Veneto”, su Falco Marin, morto in guerra l’8 settembre 1943, che l’indimenticabile signora Maria commentò così: è sì morto eroicamente, ma per una causa sbagliata!”».
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«Uno degli aspetti che mi legano al ”Piccolo” è proprio il suo essere il giornale della città, anche se nel corso dei suoi 130 anni ha avuto proprietà e posizioni politiche, che mi sono piaciute oppure no, anzi nel lontano passato erano state per me condannabili. Ma, al di là dei giudizi, sono molto legato al ”Piccolo”. Quando ero un ragazzo (ma facevo già conferenze per la “Dante Alighieri”), sognavo di scrivere sul ”Piccolo”. Ma sa perché? Perché c’era una bellissima ragazza, assolutamente irraggiungibile per la bellezza e per l’età maggiore, e io pensavo - senza aver letto ancora Kierkegaard (e conosciuto la sua relazione ”impossibile” con Regine Olsen) - di poterla in qualche modo raggiungere scrivendo sul giornale, come se l’articolo fosse indirizzato a lei, alla sua attenzione».
«Il vero e proprio contatto con la redazione c’è stato con la pubblicazione della mia tesi di laurea “Il mito asburgico”. In questo caso fu ”Il Piccolo” a cercarmi. E in quell’occasione c’è stato l’incontro – che divenne amicizia – con Libero Mazzi, allora responsabile della “terza pagina”, e con i miei primi recensori, Giorgio Bergamini e Giulio Montenero, il quale scrisse anche un articolo-intervista – con una foto di me giovanissimo: avevo 24 anni e ne mostravo di meno – veramente bellissimo, perché coglieva a fondo lo spirito della tesi, e che finiva con “questo giovane senza qualità che onora Trieste”, che una signora amica, che ignorava l’esistenza di Musil, commentò: “Ti gà visto che tacàda che ghe ga dado el ”Pìcolo”? I ga scrito che ‘l xe un omo senza qualità”».
«Da quel momento ho frequentato parecchio la redazione, nella vecchia sede di via Silvio Pellico con belle serate in birreria, in piazza Goldoni, con quel gruppo di giornalisti, intellettuali e artisti, in cui c’era anche Nino Perizi e tanti altri. E così ho cominciato a scribacchiare per qualche articolo ogni tanto. Uno dei primi era su Enzensberger. Poi ricordo un elzeviro sulla prima traduzione italiana (Adelphi, 1967) e una delle primissime al mondo delle “Considerazioni di un impolitico”, un saggio del 1918 di Thomas Mann, a cura di Marianello Marianelli, che era un professore molto più anziano di me. Dopo l’uscita dell’articolo, il vecchio Alessi, Rino Alessi senior, scrisse una lettera a Mazzi per dirgli che gli era molto piaciuto: “Non lasciatevelo scappare, questo ragazzo!”.
Poi c’era Stelio Crise, con cui una sera – l’iniziativa fu sua, ma io avevo aderito entusiasticamente – cercammo di fare uno scherzo da prete, un sabotaggio goliardico: c’era una bella fotografia (anzi una ”telefoto”) di Sofia Loren con Maria Scicolone, la mamma dell’onorevole Mussolini, con sotto una didascalia in cui c’era scritto “Sofia Loren con la sorella Maria Scicolone al mare”. E Crise con la mia complicità la sostituì con “Ignazio Gherbitz, l’inventore del termoforo a pedali”. Mazzi se ne accorse all’ultimo momento e rimediò con il suo tipico buon umore». «Poi ho cominciato a scrivere sulla “Gazzetta del Popolo”, sul “Corriere della Sera” e così via. Ma in tutti questi anni ho sempre continuato, seppur sporadicamente, a collaborare col ”Piccolo”. Ci ho sempre tenuto molto. Ricordo anche l’insensata richiesta che mi venne fatta al tempo del direttore Paolo Francia, che una sera in casa di amici mi chiese se volevo fare il direttore del ”Piccolo”.
”Molto onorato, grazie”, ma naturalmente rifiutai, perchè non lo sapevo fare. Insistettero, aggiungendo che, se avessi accettato, mi avrebbero affiancato un “tecnico”. Cosa secondo me profondamente ingiusta nei confronti di un giornale in generale, perchè significava solo dare il proprio nome come “responsabile”, ma in realtà non far niente, e allora avrei potuto firmare anche il giornale di Panama. La tecnica di un lavoro è la premessa necessaria. È quell’insieme di conoscenze per cui, se sei bravo, le combini in un certo modo per far qualcosa di originale. Horatio Nelson era un grande ammiraglio, ma se non avesse conosciuto i venti e le correnti, non avrebbe potuto essere più bravo degli altri a pensare come sfruttare quella corrente o quel vento in quel momento, per esempio a Trafalgar, per prendere di sorpresa le navi franco-spagnole (33) e sconfiggerle a Trafalgar nonostante l’inferiorità numerica (27 le navi inglesi). Insomma ero gratissimo per l’offerta, ma oggi lei non sarebbe qui a farmi queste domande, perché il glorioso ”Piccolo”, con me al timone, non credo avrebbe festeggiato i 130 anni e sarebbe da tempo naufragato».
«Di proposte del genere - assumermi responsabilità in imprese che esulavano dalla mia competenza - per me assurde, ne ho avute anche altre: mi hanno chiesto di entrare nel consiglio di amministrazione della Rai (in epoche molto meno burrascose che adesso), poi di entrare nel cda della Biennale di Venezia (che avevo vista una sola volta nella mia vita, a 14 anni, trascinato dai miei genitori per darmi una formazione culturale), e perfino di dirigere un Istituto italiano di cultura (Pressburger l’ha fatto magnificamente, Davico idem), per il quale ci vuole un talento speciale, la capacità di gestire un cocktail di cultura, organizzazione e amministrazione. Questa proposte assurde secondo me fanno parte di una crisi della professionalità che è crescente, perché pochi imprenditori di cultura, editoria o industria conoscono veramente i meccanismi - direi ”artigianali” - del mestiere, dell’azienda di cui sono responsabili». «La vita del giornale è affascinante.
E ”Il Piccolo” è stata per me una bella scuola, un’avventura proseguita poi soprattuttto al ”Corriere”. Collaborare a un quotidiano è una educazione favolosa per chi scrive, perché lo costringe a essere in continuo contatto con il mondo, ma contemporaneamente c’è la mescolanza tra quello che il mondo ti porta – la notizia da prima pagina – e la questione su fino a che punto assecondare il mondo. Poi c’è il linguaggio: la necessità di essere comprensibile, senza però che questo significhi cedere. È una ginnastica che abitua chi scrive a cercare di unire umiltà e resistenza. In qualche modo è come nel dialogo, quando dobbiamo essere contemporaneamente aperti all’altro però anche decisi a far valere le nostre ragioni. In questo il giornale è una palestra straordinaria». C’è un altro aspetto interessante, sottolinea Magris: l’equilibrio che deve esserci tra vicino e lontano, tra localismo e globalizzazione. Un equilibrio che riguarda soprattutto i giornali locali, ma anche quelli a diffusione nazionale.
C’è anche tutto un retroterra culturale di una comunità molto varia, com’è quella che legge il ”Piccolo”, molto varia per estrazione sociale e per cultura, alla quale senti come ti puoi rivolgere, non per cedere (puoi anche decidere di prendere una comunità a sberle...), ma senza dimenticare che noi esistiamo non da soli, bensì sempre in un dialogo, in un coro. Il vero problema è non accodarsi, non cancellarsi, essere se stessi. Mantenere un’identità». «Negli ultimi tempi ”Il Piccolo” è diventato sempre più il giornale della città anche nelle sue comunità più varie. Per esempio che Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, abbia scritto sulle Foibe è stato secondo me un fatto storico. Il giornale ha avuto una funzione che è stata precorritrice in modo non astratto, perché certamente non l’avrebbe fatto 30 anni fa, non tanto o non solo perché la proprietà o la direzione di 30 anni fa fossero più o meno aperte, bensì perché il giornale deve tener conto di situazioni. E lì che si gioca tutto.
Il vero realismo non è correre dietro all’esistente o trincerarsi ottusamente nel localismo e neanche incominciare a fare concorrenza, che so, a ”Le Monde”. Sarebbe ridicolo come se io volessi imitare Faulkner». «Nessun giornale può permettersi di ignorare la realtà che lo circonda: questo c’insegna l’Europa, questo è il ”sentimento Europa”, separato dalle grandi civiltà totalizzanti, individuali, ma anche dalla civiltà del cowboy che si crea la legge, mentre io preferisco il burocrate asburgico che la applica. Il giornale porta la civiltà, l’inciviltà, racconta quello che succede nel mondo che ci riguarda, perchè, ribadisco, nessun giornale può permettersi di ignorare la realtà che lo circonda. Ma è ovvio che non può raccontare solo quella: come se ”Il Piccolo” non raccontasse che è scoppiata la terza guerra mondiale, ma solo ”un buso in mia contrada”. Non sarebbe un giornale. Se ti interessa solo il rancoroso, livido localismo, sei perduto, non ami più la città». Il giornale specchio della città, ma non lente miope, che guarda anche lontano, che rispecchia il ”mar grando” della vita del mondo. Senza pretendere di far concorrenza ai grandi giornali nazionali.
«Questo fa sì che molto spesso, per quel che riguarda la cultura in particolare, le recensioni, gli interventi, generalmente più interessanti sono quelli che non hanno un ruolo nazionale eminentissimo, proprio perchè sono meno soggetti a pressioni. Ecco perchè mi piace il ”Piccolo”: un giornale che è in testa alla seconda categoria rispetto ai 3-4 quotidiani nazionali, però ha tutto il peso del grande giornale». Quello di Magris è un flusso ininterrotto di aneddoti, citazioni, ricordi a ruota libera, che fanno jumping tra macro e microcosmo, tra colto e profano, con la parlantina gioiosa e ironica di un bambino capace di stupire ma anche di stupirsi. Ci vorrebbe la diga di un castoro per rallentare il suo eloquio torrentizio. Ma forse solo l’apparizione di un orso riuscirebbe a lasciarlo senza parole. Oppure... «Adesso mi scusi, ma devo scendere in edicola. Oggi non ho ancora acquistato ”Il Piccolo”».
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