Nei racconti dei “grandi saggi” il legame fra Trieste e la Grecia

In una poltroncina a pozzetto color crema, una delle tante che all’ultimo piano della sede della comunità greco-orientale accolgono ogni domenica, dopo la liturgia divina, una sessantina di fedeli o semplici seguaci della cultura greca, siede Marula Vicu. Occhi grandi e profondi, che hanno assistito a importanti passaggi di storia greco-triestina e appaiono quasi in contrasto con il suo corpo minuto. Un bel vestito azzurro e una sottile cintura che avvolge la sua pelle olivastra sono in armonia con l’elegante chioma grigia. «Marula è una donna laureata, sa tutto della nostra storia», dice Evangelo Pantarrotas, figlio di un greco della Tessaglia, commerciante, e di una triestina, 365 giorni più giovane della signora Vicu, che ha 94 anni. Loro sono tra i più anziani della comunità, i più saggi, la memoria non li tradisce nemmeno un secondo.
«Avevo sei mesi quando mi hanno portato a Trieste da Smirne», dice Marula. Era il 1922 quando la sua città, invasa dai turchi, andò in fiamme. Bisognava fuggire in fretta. «La gente andava al porto, aspettando una nave che li portasse via». E fu così che dapprima arrivò a Trieste il padre di Marula per lavorare nella nuova sede della ditta di tabacchi con cui aveva collaborato fino a quel momento.
Dalle finestre del terzo piano della parte nuova dell’edificio della comunità, costruito successivamente rispetto alla chiesa, si vede il molo Audace. Le trasparenze delle vetrate consentono di osservare le navi che passano. Le stesse che si ammiravano nel 1700, quando «i nostri connazionali erano armatori e al tempo stesso comandanti dei velieri - racconta Stylianos Ritsos, presidente della comunità che conta 300-400 membri a Trieste e un migliaio in regione -. Inoltre gestivano le compravendite a terra, trovavano chi gli dava il carico, trasportavano merci e tramite queste facevano affari». All’andata trasportavano generi alimentari dalle spezie al vino. Al ritorno prodotti industriali: colori, tessuti, macchinari. Simbolo di quell’operosità è palazzo Carciotti utilizzato per stoccare merci e ospitare impiegati e manovali.
«Ti ricordi quando andavi dagli eredi Economo?», chiede a Evangelo la cognata Laura Carboni, di origine istriana, ma con un bisnonno di Zante. «Certo, avevano i guanti bianchi e il maggiordomo». Il parterre greco degli scorsi secoli ha visto insediarsi a Trieste famiglie molto benestanti che hanno iniziato a creare infrastrutture per sostenere il commercio: «La Borsa è stata istituita dai nostri, assieme ai serbi montenegrini e agli ebrei, inizialmente per lo scambio di azioni e merci» spiega Ritsos.
Banchieri e commercianti si aggiungevano tra le professioni, la classe media invece era composta da negozianti di alimentari e, stoffe. Due segmenti sociali che vennero espressamente distinti con lo statuto del 1784, norma che poi sparì dopo la seconda guerra mondiale, anche perché non c’era più la ricchezza di un tempo.
Durissimo, per i greci di Trieste, fu il rapporto con il fascismo. «In quel periodo la nostra comunità visse molto male», riferisce Pantarrotas. E ricorda che, «quando l’Italia occupò la Grecia, ci avvisarono che nel nostro appartamento nel palazzo liberty sopra la Upim stavano entrando dei tedeschi con le mitragliatrici. Mio padre gli andò incontro per le scale. “Guten morgen” disse. “Come mai sa il tedesco?” gli chiesero. Lui faceva affari con un signore di Villacco, che si scoprì essere il padre di uno di loro. Fu così che lo lasciarono andare». La separazione tra ricchi e meno abbienti ufficialmente svanì con la revisione dello statuto del 2011, dove venne riconosciuta anche alle donne la partecipazione nel consiglio della comunità. «Ma vogliamo rendere più attuale il testo», dice il presidente.
Le tappe salienti della storia della comunità si trovano tutte nell’edificio di Riva III Novembre, vicino alla chiesa di San Nicolò, restaurato tra 2000 e 2010. Lì ci sono le aule dove un tempo Marula e Evangelo frequentarono le elementari greche con un diploma che fino alla seconda guerra mondiale equivaleva a quello italiano. Gli stessi ambienti vissuti oggi da una quarantina di ragazzi e bambini di origini greche, dai cinque ai 20 anni, che imparano il greco moderno il pomeriggio. E da un centinaio di adulti, molti dei quali triestini, perché la comunità apre le porte a tutti con le attività del tempo libero. Così come la chiesa, «frequentata da tutti perché le nostre radici si fondano sull’accoglienza - racconta l’archimandrita padre Gregorios Miliaris - e anche dagli altri ortodossi. Ho capito che qui a Trieste tutte le comunità sono un esempio di come possono vivere in pace i popoli nel mondo». Parole sottoscritte dal sacrestano, Giovanni Zuvelekis, 40 anni: «Essere cristiano ortodosso significa prima di tutto avere il dono della fede e poi avere la possibilità di unirmi a Dio tramite i sacramenti».
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