Per raccontare il dramma di una terra divisa in due il Carso diventò Far West

Un saggio di Alessandro Cuk racconta la Hollywood triestina e le contrastate riprese di “Cuori senza frontiere” di Zampa
Di Paolo Lughi

di PAOLO LUGHI

Trieste, Hollywood italiana? Qualcuno di recente l'ha definita così (esagerando, ma non troppo) di fronte al fiorire continuo di importanti produzioni che fanno tappa in città, da ultimi il sequel del "Ragazzo invisibile" di Gabriele Salvatores e la serie poliziesca "La porta rossa" tratta da Carlo Lucarelli.

Ma c'è stato un momento, quasi settant'anni fa, in cui tutto ciò è cominciato e che vale la pena ricordare. Il grande cinema italiano sbarcò per la prima volta a Trieste nell'autunno 1949 con le riprese di "Cuori senza frontiere", prodotto da Carlo Ponti per la prestigiosa Lux Film, diretto da Luigi Zampa reduce dai successi neorealisti di "Vivere in pace" e "L'onorevole Angelina", sceneggiato da Vitaliano Brancati, interpretato da Gina Lollobrigida e Raf Vallone nonché da Enzo Staiola, il bambino di "Ladri di biciclette". Inoltre, come comparse e assistenti, facevano il loro debutto sul set due giovani cinefili locali, i futuri maestri della critica Tullio Kezich e Callisto Cosulich. «Avevo appena finito di ridere su Callisto vestito da ufficiale russo - ricordò Kezich - che Zampa decise di travestirmi da tenente jugoslavo».

Proprio a questo singolare film incentrato sulla cosiddetta "questione di Trieste", che racconta di un villaggio del Carso improvvisamente tagliato a metà dalla linea del confine, viene ora dedicato un libro del giornalista e critico veneziano Alessandro Cuk. Si intitola "Cuori senza frontiere. Il cinema del confine orientale" (pagg. 191, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) e sarà presentato al Lido di Venezia sabato 3 settembre durante la Mostra del Cinema.

Lo scopo della ricerca, spiega Cuk, è riportare alla memoria un film non del tutto riuscito ma comunque di valore, presto dimenticato e rimasto praticamente senza seguito nell'argomento, che prendeva lo spunto da un tema caldo che non ha perso attualità (il confine fra Est e Ovest). Dal dramma odierno dei nuovi migranti, fino ai fili spinati che rinascono vicino all'ex "confine orientale", in questo cruciale lembo d'Europa siamo ancora lontani dalle speranze neorealiste di "vivere in pace" con "cuori senza frontiere".

E l'opera di Zampa, suggerisce Cuk, nonostante i suoi limiti è rimasto "il" film sul confine per antonomasia del cinema italiano: «Il suo luogo centrale è la frontiera, sia dal punto di vista materiale, sia simbolico. Si tratta di uno dei rarissimi casi in cui si vede costruire direttamente un confine politico-militare, con tanto di paletti e filo spinato. La linea bianca è un elemento sempre presente, in una situazione che di volta in volta diventa paradossale, drammatica, grottesca. Il film originariamente si doveva proprio intitolare “La linea bianca”».

Partendo innanzitutto dal valore simbolico dell'opera, ma non senza riflettere sul risultato estetico, Cuk fornisce di "Cuori senza frontiere" una documentazione completa, dall'analisi del testo alla raccolta delle testimonianze e dei commenti critici, dall'elenco dei passaggi televisivi alle schede di tutto il cast artistico e tecnico. Da questo quadro emerge in particolare l'importanza produttiva di quel film nel contesto italiano dell'epoca, segno dell'attenzione (rimasta tuttavia isolata) che si voleva dare, anche attraverso il cinema neorealista, alle questioni del confine orientale, espresse dalla celebre frase di Churchill: «Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente». E "Cuori senza frontiere" si ispira probabilmente all'immagine del cimitero di Gorizia diviso in due in seguito alle decisioni internazionali del 1947.

A differenza dell'altro film italiano di quegli anni sulla medesima questione, "La città dolente" (1949) di Mario Bonnard, "Cuori senza frontiere" venne invece girato nei luoghi reali sul Carso triestino, a Monrupino, Santa Croce e sulla strada per Opicina, come ha testimoniato Kezich, anche se il villaggio è immaginario, creato dal montaggio delle varie località carsiche. Trieste viene solo nominata come città vicina di riferimento, ma è la sua situazione che si vuol far intendere al pubblico nazionale, con la divisione del territorio in Zona A e Zona B. Sul set ci fu anche un'iniziale contestazione (presto rientrata) della popolazione slovena con una "fitta sassaiola", ricordò Kezich.

Insieme al villaggio, nel film viene diviso anche l'amore di Raf Vallone e Gina Lollobrigida, belli e con lo sguardo un po' assente, fisso verso una speranza lontana, come imponeva l'estetica di certi eroi neorealisti. «Più degli altri - sottolineava la recensione del "Corriere della Sera" il 7 ottobre 1950 - soffrono i ragazzi, che prima giocavano assieme e si volevano bene, e ora stanno in campi opposti». A questi piccoli personaggi regalano il volto e qualche fresca battuta in dialetto «un gruppo di ragazzi triestini».

Ma in questo film antiretorico e antimilitarista, la difficile e complessa situazione politica del territorio viene più allusa che affrontata. È anche un'epoca in cui il cinema neorealista trascolora in qualcosa d'altro dalla testimonianza verista. Predomina in "Cuori senza frontiere", e non solo nelle presentazioni pubblicitarie, il melodramma passionale. «Due uomini si contendono una donna: l'eterno conflitto trova nuovi accenti drammatici in un film di grande attualità», dicono i flani sui giornali. E quando la pellicola esce a Trieste al Cinema Excelsior, il 10 novembre 1950, la città sembra rimanere indifferente. Il film non accende dibattiti, non viene recensito, né suscita alcuna eco sul "Giornale di Trieste". Quando sul set Kezich diceva a Zampa che il film rifletteva la realtà triestina come avrebbe potuto farlo un regista australiano, Zampa gli rispondeva: «Ma non è mica fatto per Trieste, i film sono una cosa universale!». Un'obiezione che non ha mai convinto Kezich «e neppure il pubblico - aggiungeva lui - che non andò a vederlo».

La "grande attualità" del film di fatto cedeva il passo a quel manierismo tardo-neorealista che alternava (qui con qualche scompenso) parti leggere e parti drammatiche. E le digressioni di bonaria comicità tra comunisti e cattolici sembrano anticipare il "Don Camillo" (1952) tratto da Guareschi della strana coppia Cervi-Fernandel.

Ma se "Cuori senza frontiere" è rimasto ininfluente dal punto di visto politico ed estetico (anche se fu segnalato fra i migliori film stranieri dai critici di New York), ha invece marcato un'importante "linea di confine" sul fronte artistico e produttivo. L'allora emergente produttore Carlo Ponti, ad esempio, proprio nel 1950 fondò la Ponti-De Laurentiis, che realizzerà in quell'anno ben sette film e darà avvio alle fortune dei due "tycoons". Il film rappresentò una frontiera spartiacque anche per l'iconografia della semisconosciuta Gina Lollobrigida, che qui sembra fare le prove per l'enorme successo di "Pane, amore e fantasia" (1953), travolgente bellezza campagnola col fazzoletto in testa e mille lavori da sbrigare in fattoria.

La collaborazione a "Cuori senza frontiere" fu poi decisiva per Cosulich e Kezich, alla vigilia della loro partenza da Trieste per Roma e Milano. Le loro comparsate, ma soprattutto i dialoghi e le cene con la troupe e il cast, la conoscenza di registi in visita (Giuseppe De Santis), furono tutte esperienze che li familiarizzò definitivamente col cinema professionale. Come ricordò Cosulich: «Per Tullio fu quella l'occasione per gettare le basi del secondo aspetto dell'attività in seno alla “macchina cinema”, come produttore, oltre che come critico e autore".

In "Cuori senza frontiere" riveste comunque grande fascino il debutto del Carso triestino nel cinema, visto nel suo aspetto più aspro e pietroso, coperto sempre da un cielo grigio, quasi una sfida per chi vi abita. Una terra selvaggia in cui le sparatorie finali da dietro le rocce, tra combattenti di frontiere opposte, assumono connotazioni western che saranno piaciute al giovane Kezich.

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