Quelle vecchie case di Doberdò del Lago dove la storia è ferma al maggio del 1945

È un edificio con un secolo di vita alle spalle che racconta la storia di queste terre. Un’ex azienda agricola (abitazione con ricovero di animali) visibile sia dalla strada statale 55 dell’Isonzo, meglio conosciuta come Vallone, prima dell’area cimiteriale di Jamiano, che dall’arteria di collegamento con il confine sloveno di Brestovizza, frazione del comune di Comeno, porta le “stimmate” del secondo conflitto mondiale. Sulla parete frontale, infatti, riporta la gigantesca scritta murale “Hocemo Jugoslavijo” (Vogliamo la Jugoslavia), un simbolo indelebile tracciato dai titini (o filo titini), l’unico rimasto oggi a Doberdò e mai cancellato. Anzi, in qualche occasione, dato l’impatto visivo, è stato utilizzato anche a scopi pubblicitari.
«Questa come le altre scritte dallo stesso contenuto, ma più piccole – spiega il filosofo Karlo Cernic – si sono potute conservare perché fatte con la pittura antiruggine al minio, cioè con ossido di piombo. Proveniva dai cantieri navali di Monfalcone, dove non solo vi lavoravano molti paesani di Doberdò, ma dove sin dagli anni Venti operavano gruppi e cellule clandestine antifasciste dal Partito comunista a Soccorso rosso». Le altre scritte sulle mura delle case, in versione ridotta, sono ancora leggibili, nonostante le facciate siano state più volte riverniciate o smaltate. Presumibilmente sono state fatte con l’aiuto di sagome metalliche e della stessa provenienza logistica del minio. Queste e simili scritte erano piuttosto frequenti nell’immediato secondo dopoguerra in quella parte della Venezia Giulia la cui sorte geopolitica fu definita solo alla conferenza di pace di Parigi il 10 febbraio 1947.
«Non sono “di serie” – svela Cernic – invece le due bandiere incrociate, quella slovena e quella jugoslava dipinte sopra l’uscio di una casa colonica a Devetacchi proprio all’incrocio con il Vallone». Bandiere un po’ sbiadite che resistono, come se quell’abitato fosse rimasto fermo al maggio del 1945. “Hocemo Jugoslavijo” ha oltre 70 anni di vita, è una scritta dipinta da una mano esperta: non ha sbavature, le lettere sono perfettamente proporzionate l’una con l’altra e delimitate fra due linee orizzontali. Dalle testimonianze quasi sicuramente è stata concepita durante le visite della Commissione militare alleata chiamata a decidere le sorti dei confini (1945-46), con l’allora Zona A (italiana) e la Zona B (jugoslava). Confini che poi vennero fissati definitivamente nel settembre 1947.
Nei primi mesi del 1946 anche a Doberdò, infatti, arrivò la Commissione alleata per tracciare i confini ed è per quell’occasione che il Comitato popolare locale organizzò varie manifestazioni pro jugoslave e delle quali le scritte murali restano visibile testimonianza. A parte gli anziani che abitano intorno a questa casa e qualche studioso o ricercatore, sono pochi in paese che conoscono la storia di queste dimore che si inerpicano sul costone del Carso. Abitazioni delle quali la maggior parte vennero distrutte dai bombardamenti durante la guerra. In parte oggi sono state abbandonate o gli eredi le hanno messe in vendita. «Tutte le case qui intorno vennero abbattute durante la guerra – dice la signora Rosina che abita in una villetta accanto – anche la nostra dove abitiamo. Poi l’abbiamo ristrutturata negli anni Settanta. Pur essendo i “vicini” di questa abitazione, non abbiamo mai saputo esattamente chi abbia scritto la frase. Tante persone si fermano per chiedere informazioni ed è come se fosse diventata una casa-museo. Da quello che ci risulta è sempre della famiglia Frandolic e la proprietaria, la signora Aurora, abita a Opicina». Anche l’ex sindaco di Doberdò, Mario Lavrencic, ci tiene a confermare che le scritte fanno parte della storia di Doberdò. Come “Nas Tito” (Tito nostro) in un’altra parte del paese, ma con il tempo sono state coperte dai lavori di ristrutturazioni. —
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