Renzetti dirige al Verdi il Sabato di Leopardi

TRIESTE. Sarà il maestro Donato Renzetti a chiudere la stagione sinfonica del Teatro Verdi, domani alle 20.30 e sabato alle 18, dirigendo in prima esecuzione moderna il poema campestre “Il sabato del villaggio”, su poesia di Giacomo Leopardi posta in musica per soli coro e orchestra da Ferruccio Busoni. All’Orchestra della Fondazione lirica triestina si unirà il Coro preparato da Paolo Vero. La Staatsbibliothek di Berlino, proprietaria e depositaria del manoscritto “Il sabato del villaggio” di Busoni, ha aderito al progetto del Verdi di Trieste autorizzando la prima edizione critica e la revisione dell’opera a cura di Marco Taralli. Proposto il 2 marzo 1883 al Teatro Comunale di Bologna, da allora non fu mai eseguito, fatta eccezione per una esecuzione in lingua tedesca nel ’29 a Lüneburg.
«È una partitura molto elegante, molto fine, - dice Donato Renzetti - che Busoni compose a sedici anni. Dopo questa esperienza vorrei approfondire questo autore, vorrei cominciare a studiarlo partendo proprio dal “Sabato del villaggio” per capire quel che ha creato dopo».
Se le dicessi, con Leopardi, “A Silvia”?
«Mia moglie, Silvia Baleani, una grande moglie, io devo tutto a lei. È una donna bella, di classe, una persona che sta sempre un po’ in disparte, però senza di lei non avrei potuto fare la carriera che ho fatto. Ci siamo conosciuti quando ho diretto a Bologna “Il signor Bruschino” di Rossini, lei era un grande soprano. Sono trentacinque anni che stiamo insieme, e non è facile convivere con il mio caratterino, soprattutto prima dei concerti. Una volta passando in auto vidi Zubin Mehta, dopo un successo alla Scala, che passeggiava da solo. Dopo un trionfo così, non aver nessuno che ti osanna tra le mura di casa, oppure ti distrugge nonostante il successo... Da mia moglie mi aspetto sempre questo, nel bene e nel male. È competente, perciò è importante il sostegno che mi ha dato».
La sua terra è l’Abruzzo. E a Torino di Sangro ha imparato a suonare.
«Il mio paese è molto strano. Tremila persone e una banda di 60 elementi... vuol dire che suonavano tutti. La mia famiglia c’è stata, eravamo tutti batteristi. Torino di Sangro ha avuto tanta gente importante nella musica. Ho un cugino, Maurizio Fabrizio, che è un compositore molto famoso».
E il papà Domenico era musicante nella banda del paese, composta da sarti, falegnami, barbieri, calzolai, tutti con la passione per la musica. Poi diventò timpanista alla Scala.
«Io sto scrivendo un libro, e anche una sceneggiatura per un film, sulla storia della mia famiglia. È una storia lunga e meravigliosa, quella di mio padre e mia madre, un amore straordinario, unico, vissuto durante la guerra. Non si sono mai parlati, si sono visti da lontano, solo uno sguardo quando papà da ragazzo stava partendo per la guerra. È finito anche nei campi di concentramento in Germania, è tornato dopo sette anni e lei lo aspettava. Mio padre è stato il primo della famiglia a scrivere canzoni, le ha scritte a tutto il paese e a tutti i parenti. E ne ha scritto una per Nina, mia mamma. Quando hanno festeggiato i 50 anni di matrimonio, ho pensato di musicarle e fare un disco. Ho messo in ballo tutti gli allievi, gli amici, un mese di lavoro, ed è venuto un disco molto emozionante, fatto in casa, col cuore. Sono venti canzoni, molte in dialetto abruzzese. Io canto la canzone che mio padre dedicò alla mamma quando tornò dal militare. Volevo farla eseguire a un mio allievo, bravissimo, però la cantava in maniera troppo moderna. Allora gliela accennai io e mio cugino disse: “Va bene così!”. Ed è rimasta così. Adesso sto preparando un altro disco, perché papà ha scritto veramente tante cose».
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