Osimo cinquant’anni dopo, Bruno Marini: «Uno choc che portò alla Lista per Trieste»

L’ex consigliere e anima degli esuli: «Fu un tradimento che scosse i triestini, nella Dc solo Fanfani riuscì a capirci»

Piero Tallandini
Nella foto (scattata da Claudio Ernè) un primo piano di partecipanti a una manifestazione contro Osimo
Nella foto (scattata da Claudio Ernè) un primo piano di partecipanti a una manifestazione contro Osimo

Si definisce «un oppositore storico al Trattato di Osimo: lo sono stato per mezzo secolo e continuerò a esserlo». Per l’ex consigliere comunale e regionale Bruno Marini, storico esponente prima della Dc e poi di Ccd e Forza Italia, Osimo rappresenta un chiodo fisso. Un pensiero che evoca ricordi amari, speranze tradite, ma che riporta anche all’origine di una passione politica: quella che alimenta ancora il cuore del vecchio leone istrocattolico.

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«Sì, il Trattato di Osimo ha acceso dentro di me qualcosa – racconta Marini –. Avevo solo 15 anni, ma sentivo attorno la delusione, il senso di ingiustizia che provavano i miei genitori, entrambi esuli, e tutti i triestini. In quei giorni è nata la voglia di dedicarmi alla politica, all’associazionismo. Dalla parte degli esuli, dei triestini».

Il Trattato di Osimo fu uno choc emotivo per la città?

«Sì, senza alcun dubbio. E lo fu anzitutto per la mia famiglia. Mia mamma era di Grisignana, mio padre di Villanova di Verteneglio ed erano arrivati a Trieste nel ’54 dopo il Memorandum di Londra. Ovviamente scesero in piazza. Ricordo che sconcerto, delusione, amarezza erano i sentimenti che univano la stragrande maggioranza degli abitanti di Trieste. Lo si viveva come un vero e proprio tradimento da parte dello Stato italiano».

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Quali furono le colpe maggiori dell’accordo?

«Giuridicamente si limitava a riconoscere lo status quo, ma di fatto all’Italia non riservò alcun vantaggio. Certo, si arrivava da una guerra sbagliata scatenata dal fascismo, però il risultato fu che, con Osimo, a pagarne il prezzo più salato furono gli esuli, mai adeguatamente risarciti per i beni che avevano dovuto abbandonare. Fu un clamoroso errore politico in prospettiva».

In che senso?

«Perché tolse all’Italia, definitivamente, anche la minima capacità contrattuale. Forse, senza Osimo, sarebbe stato ancora possibile ottenere delle contropartite economiche subito dopo la dissoluzione della Jugoslavia. Peraltro nel 1975 in Italia eravamo in pieno compromesso storico, c’era un atteggiamento di appeasement verso il blocco comunista e in particolare verso Tito».

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Davvero sarebbe stato possibile ottenere di più?

«A mio giudizio sì. Anche se mi rendo conto che la prevalenza della corrente morotea che caratterizzava quegli anni difficilmente avrebbe potuto portare a un risultato tanto diverso. Già mesi prima della firma del Trattato si capiva quale fosse la direzione verso la quale si stava andando. C’erano indiscrezioni, rilanciate anche dal Piccolo, che non lasciavano prevedere niente di buono. E un prodromo negativo fu, il 28 giugno del ’75, la clamorosa decisione del vescovo Santin di dimettersi. Nell’ambiente degli esuli fu un campanello d’allarme assordante».

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Quanto incise Osimo sulla politica triestina?

«La cambiò completamente. Il movimento di protesta e di opinione portò alla formazione della Lista per Trieste. Ci fu un coinvolgimento popolare straordinario. Ricordo la gente in fila ai banchetti per firmare. Furono raccolte 65 mila firme per protestare contro la zona franca sul Carso prevista da Osimo e poi la Lista vinse le elezioni nel ’78 con Cecovini sindaco. Trieste divenne un caso politico nazionale: era la prima volta che una civica batteva i partiti nazionali e in particolare la Dc. Nel partito solo Fanfani riuscì a capire le ragioni dei triestini. In città arrivarono pure Almirante e Pannella, che estese così la protesta anche a sinistra».

Influì anche sul corso della politica regionale?

«Non c’è dubbio, questo scenario preparò il terreno per l’ascesa di Biasutti alla guida della Dc, che fu determinante nel far assumere un atteggiamento non aprioristicamente negativo verso la Lista per Trieste. Biasutti diceva che bisognava capire le motivazioni della protesta triestina».

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