Tribali, gotici, vintage: in migliaia a Trieste per celebrare la filosofia del tatuaggio

Edizione speciale, la numero 13, dell’International Trieste Tattoo Expo, tornato nel weekend dopo due anni di pausa dovuti alla pandemia

Francesco Codagnone

TRIESTE Tribale, gotico, realista, modello anni Settanta. E poi draghi e demoni, perché «voglio vincere le paure». Polpi e balene, «perché amo gli acquari». La morte incappucciata, «perché ci spetta prima o poi». Una dedica all’amore per sempre, che magari per sempre non sarà. Le iniziali di quella persona che non c’è più. Sogni nascosti nel cuore ma confidati all’inchiostro. Nel weekend la pelle di Trieste è tornata a riempirsi di disegni grandi o piccoli, neri o coloratissimi. È calato ieri sera il sipario sull’International Trieste Tattoo Expo, ospitato all’Ippodromo di Montebello, che ha coinvolto oltre cento professionisti da tutto il mondo per un pubblico numeroso, da Trieste e non solo, e un viavai continuo. Ieri pomeriggio si contavano infatti già più di cinquemila ingressi. Un’edizione speciale, la numero 13, di cambiamento e rinascita dopo due anni di pausa dovuto alla pandemia.

Trieste, fine settimana all'insegna dei tatuaggi all'Ippodromo di Montebello

«Il tatuaggio non è un semplice disegno: è un modo per raccontarsi attraverso la pelle», spiega Franco Cecconi, veterano dell’Expo. «Il tatuatore è un sacerdote: aiuta l’uomo a interpretare i suoi sogni». Tatuare, per Franco, è da sempre un atto d’amore, sin dall’apertura del suo studio a Roma, a metà degli anni Novanta: «Il mondo cambia, i tatuaggi anche. Eppure la necessità è sempre la stessa: raccontarsi».

Quello dei tattoo è mondo vasto, tra tecnologia e tradizioni epiche. L’Expo di Trieste ne ha ospitata una, quella del maori, che nasce lontano nei secoli, in Polinesia. «Una tecnica lenta e dolorosa, come la vita: un ferire la pelle perché appaiano le cicatrici dell’anima», racconta in proposito Andrea Cecconi, fratello di Franco. I tribali, per lui, sono un fuoco sacro: «Nascono dai mari del Sud, come quelli dei romanzi che leggevo da bambino, come “L’Isola misteriosa” e “Moby Dick”. E poi mi ricordano le mie avventure sulla tavola da surf nell’Oceano Pacifico».

Non solo aghi, piercing e corse di cavalli. La strana corte s’è colorata anche di concorsi e musica, e poi gli spettacoli offerti da “La Mandrakata”, dalla pole dance allo striptease, dalle contorsioniste al burlesque. C’era tutto: l’euforia, il dolore, la trasgressione e il rock’n’roll. Una trama “on the road”, ma i protagonisti non erano i motociclisti di Kerouac, o non solo. A passare sul lettino c’erano anche l’impiegato, la studentessa, l’operaio, la giovane mamma.

Altro che “beat generation”: il tattoo è un modo d’essere trasversale. Ognuno ha la sua storia, e la racconta come gli pare. Francesca Pizzinini, dall’Alto Adige, si è fatta tatuare i suoi «demoni interiori» su tutta la gamba sinistra. Capelli verdi e corpo minuto, Francesca studia Belle Arti e per lei «nel corpo ci si nasce, ma i tatuaggi si scelgono». Di tattoo ne avrà già una trentina, e per completare quest’ultimo «mostro» è servito tutto il weekend. «L’ho disegnato io, vederlo su pelle è un’emozione: un po’ innervosisce, un po’ commuove» spiega Paolo Girotto, il suo tattoo artist, mentre completa gli ultimi dettagli del «demone su coscia».

Tra confessione e mistero è il tatuaggio della pordenonese Giada De Filippi. Un Krampus, un diavoletto del folklore alpino. Su tutto il ventre, da vera punk, ma «i tatuaggi bisogna soffrirli». Vincentiu Bordei, il tatuatore, non distoglie gli occhi dal «demone» di Giada: «È passione, ma anche ossessione».

Arianna Marocchi, invece, ha scelto un polpo, che sembra nuotarle nel petto: «Perché lavoravo nell’acquario di Trieste. E perché mi piacciono i polpi». Non dev’esserci sempre un perché. Guido Migliore, da Napoli, ha scelto ad esempio un old school. Una ragnatela con un occhio spalancato, sul gomito destro: «Uno sguardo a proteggermi le spalle».

Che sia un desiderio inespresso, un ricordo o un «perché così mi va», i tatuaggi, mentre raccontano delle storie, ne creano altre: generano incontri, stabiliscono legami. «Tra il tatuatore e il tatuato c’è un rapporto intimo: ci vuole fiducia e ascolto» spiega Claudia Ferrarini, da Milano, mentre fa scorrere l’ago sulla gamba di Diego Parenzan, triestino. Una «morte incoronata», con un orologio per «il tempo che non c’è più». Il perché, Diego non vuole dirlo. Il suo è un silenzio religioso, ci si capisce al volo. Del resto, ci si tatua proprio per evitare le parole. I tatuaggi dicono già tutto.

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