TRIESTE, COME SEI CAMBIATA

Vienna è sempre Vienna, proclama un detto famoso, credendo di farle un complimento. Canetti commenta: «la cosa peggiore che si possa dire di una città». Anche questa è una battuta faziosa ancorché illuminante, dettata da quell'acredine nei confronti della capitale danubiana che è così frequente nei più grandi scrittori austriaci e costituisce il loro profondo legame con la città; un cordone ombelicale non reciso, un rapporto edipico non risolto che li ossessiona e li induce a parlarne male, ma a parlarne sempre. È un atteggiamento che si riscontra pure negli scrittori di altre città mitteleuropee, meravigliose ma bloccate nel loro sviluppo, regressivamente ammalianti e soffocanti; promesse di felicità non mantenute cui non si perdona, paesaggi incantevoli e nature morte andate a male. Praga magica è per Kafka insostituibile, ma è una «mammina dai buoni artigli», alle cui grinfie anche mortali non si scampa; nelle pagine dei suoi più grandi scrittori (specie di quelli di lingua tedesca) che non esisterebbero senza di lei, Praga è amata/odiata, sempre perduta nel passato, una Medusa affascinante e spettrale.


Pure l'aura di Trieste, il suo mito sono contrassegnati da questo cortocircuito di amore e denigrazione, la mania della quale è ancor più provinciale della celebrazione. Sono molte le voci triestine di coloro che non hanno perdonato alla città di averla dovuta lasciare o di non aver potuto lasciarla, in una coazione a ripetere in cui la nostalgia non si distingue dal risentimento. Quando un tempo incontravo spesso a Milano Aldo Chiaruttini, uno dei molti creativi triestini della diaspora, ogni volta lui mi diceva trionfalmente, emettendo non richiesti bollettini di vittoria sui legami edipici: «Sono trentatré anni, quattro mesi, due settimane e tre giorni che non ho più messo piede a Trieste!». Questo inconscio o preconscio collettivo, che ha le sue precise cause storiche, è stato talora regressivamente paralizzante e talora straordinariamente creativo, specialmente sul piano poetico, perché solo la letteratura può trasformare contraddizioni irrisolte in immagini che colgono il senso generale (o l'insensatezza) del mondo e aiutano a fronteggiare l'assurdità di vivere.


La letteratura è soprattutto l'unico territorio in cui, quando non si sa bene chi si è e quale sia la propria identità – come Slataper, quando all'inizio de «Il mio Carso» si sente costretto a inventarla – ci si può avventurare alla sua ricerca. La letteratura ma anche la storia di Trieste si sono imperniate sulla sua «doppia anima», come scrive Slataper, oscillando fra il violento tentativo nazionalista di negarne una o più componenti, la creativa capacità di viverla come un arricchimento e la sua stereotipa declamazione. I nazionalismi hanno spesso soffocato la realtà triestina; la frontiera, anziché luogo di incontro e ponte fra culture, è stata spesso luogo di conflitto, muro inalzato per respingere il vicino, per non vederlo, per non esserne contagiati; anche frontiere mentali, materialmente invisibili, hanno diviso e tagliato Trieste come cicatrici su un corpo ferito. Un terreno potenzialmente fecondo è stato contaminato da scorie di intolleranza, diffidenza e rancore, non meno inquinanti di quelle radioattive, ma la letteratura è un aratro che sa lavorare i terreni più aspri e trarne i fiori e i frutti più impensabili. Del crocevia triestino la letteratura ha fatto il simbolico paesaggio di una realtà che oggi investe sempre più il mondo intero: la tensione fra particolarismo e cosmopolitismo, fra identità chiusa come un ponte levatoio alzato e apertura all'Altro, quell'Altro che finisce per costituire una parte di noi stessi.


Le difficoltà e le sventure storiche hanno spesso indotto Trieste a ripiegarsi – intellettualmente, politicamente, economicamente – su se stessa, tarpando il suo sviluppo materiale e spirituale. Ora le cose stanno cambiando, e quella triestinità, per essere fedele a se stessa e alla propria creatività originaria e non sterilmente e meccanicamente autoripetitiva, deve assumere nuovi volti e nuove forme. Nelle scorse settimane «Il Piccolo» ha pubblicato diverse interviste e interventi sulle prospettive future di Trieste. Non sono stato in grado di dire nulla di concreto e dunque di onesto sul possibile sviluppo della nostra città e non solo perché ho poca confidenza col futuro e preferisco il Vangelo che esorta a non preoccuparsi del domani, visto che a ogni giorno basta la sua pena, ma perché per avere una fondata opinione sulle prospettive di Trieste dovrei conoscere tante cose, il mercato del lavoro, il flusso dell'immigrazione, il tasso di disoccupazione e le sue oscillazioni, lo stato delle maggiori imprese, le conseguenze economiche della caduta del confine con la Slovenia e così via, tutte cose che non conosco a sufficienza.


Ma so, sento che Trieste è cambiata, che è cambiato il suo clima psicologico, che una pagina di storia – grande, colpevole, ossessiva, dolorosa – sta chiudendosi. Le tensioni nazionali, eco tenace di drammi e di sopraffazioni inferte e subite, non monopolizzano più la nostra intera realtà. Ci sono ancora, da tutte le parti, pregiudizi, intolleranze e rancori che potranno sparire definitivamente solo quando usciranno di scena le generazioni coinvolte nella spirale e nel retaggio di violenze reciproche. E la letteratura non può essere certo falsamente armoniosa: come scriveva Max Frisch, non può fasciare le piaghe purulente, come vorrebbe l'ipocrisia democratico-perbenista, ma deve portarle alla luce, anche irritandole, affinché non imputridiscano ancor più se nascoste e non restino un marciume irrisolto nell'inconscio collettivo. Ma, ad esempio, sino a pochi anni fa era impensabile che Boris Pahor fosse unanimemente riconosciuto e celebrato come un nostro scrittore, come è ora accaduto, o che «Il Piccolo» affidasse a lui l'articolo-commento nel giorno dedicato alla memoria delle foibe. Anche sul terreno pratico dell'iniziativa economica mi sembra di notare, per quel che ne posso capire, un soffio d'aria fresca, un piccolo superamento della mentalità di città assistita, che ha avuto in passato valide e tristi ragioni di essere assistita, perdendo tuttavia così spirito imprenditoriale e gusto del rischio.


Anche la letteratura credo stia voltando pagina. Le generazioni letterarie passate e quella a cui più o meno appartengo hanno creato un mondo poetico vitale, traendo ispirazione dall'humus mitteleuropeo della Trieste slataperiana, sveviana e sabiana; hanno fatto di quel «non-luogo» che era Trieste (come Hermann Bahr la definiva agli inizi del Novecento e Jan Morris la definisce oggi) uno specchio elusivo del mondo intero o, come diceva Karl Kraus di Vienna, una stazione meteorologica della fine del mondo o di quel mondo. Pure questo motivo, cui tanta grande letteratura ha dato vita con potenza artistica, è scaduto in cliché ripetitivo, anche se quel filone è ancora vitale, come testimoniano opere anche recenti dell'uno o dell'altro autore in piena creatività. Ma quello spirito di frontiera che faceva scrivere a Slataper «tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano» ora assume, per fedeltà non passiva a se stesso, nuovi volti, si rivolge a nuove forme del sempre difficile ma fecondo incontro con l'Altro. Il confine resta un grande tema sempre fecondo, come nella narrativa di Tomizza, Vegliani, Nelida Milani, Bettiza sino oggi ai racconti di Kenka Lekovich, ma ci sono anche altri confini.


Non basta più parlare solo di italiani, sloveni o croati o della vecchia Austria; altre sono le frontiere che ci uniscono e dividono rispetto a nuove genti che arrivano, non più dall'Europa centrale, come un tempo coloro che hanno fatto grande Trieste, ma da mondi più lontani e diversi, con tutta la difficoltà, l'oscurità e la reciproca sgradevolezza di ogni incontro con l'ignoto, ma con il destino di entrare a poco a poco a far parte di noi, della nostra identità. Non basta più raccontare dei rapporti fra italiani, sloveni, croati, austriaci; occorre andare a vedere cosa succede, ad esempio, ai camionisti turchi che transitano periodicamente nella nostra città, o ai romeni che vediamo solo per le strade, bistrattati fino a quando tale ruolo non è passato agli zingari; aspettiamo romanzi, d'amore o no, che facciano posto ai cinesi o ai senegalesi ormai nostri concittadini, benché ancora divisi da noi da invisibili tenaci frontiere.


Sta nascendo una nuova città di cui molti di noi non sanno – non sappiamo – nulla, rischiando così di sentirsi all'improvviso stranieri in una città natale, ma nuova e in parte ignota. Vi è certo un crescente interesse nei confronti di questi nuovi mondi, contigui a noi ma da noi ancora non penetrati, veri universi paralleli; penso – sono solo esempi – al dialogo di Alessandro Mezzena Lona o all'articolo di Pietro Spirito su «Il Piccolo», dedicati al libro di Raffaele Oriani (triestino, mio ex-allievo) e Riccardo Staglianò sui cinesi, o a gruppi culturali quali Gli Spaesati collegati al Teatro Miela, attenti a tali nuove realtà. Ma, diceva Sciascia, «nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende»; è la letteratura che trasforma una nozione, una conoscenza teorica e astratta, in esperienza concreta, in vicinanza e conoscenza sensibile, perché essa si tuffa nella vita vissuta di un altro e la fa diventare nostra.


Ogni mutamento di tema, di soggetto letterario richiede un mutamento di stile, di forma espressiva. La letteratura triestina ha certo visto negli anni recenti autori ed opere decisamente nuove rispetto alla sua grande tradizione: ad esempio Pino Roveredo ha dato voce a un mondo del disagio e della marginalità sociale, Giuseppe O. Longo ha trasformato in visione e racconto del mondo le sconvolgenti rivoluzioni della scienza, Mauro Covacich ha portato un'esperienza stilistica forte e innovatrice, che ha i suoi modelli - peraltro originalmente ricreati - nella narrativa americana e non certo in quella centro-europea.


Tuttavia manca ancora il romanzo di questa nuova Trieste che sta nascendo. Il celebre trinomio slataperiano, punto di partenza fondamentale e sempre presente, dovrebbe trasformarsi in una «creolità» simile a quella propugnata da grandi autori quali Éduard Glissant o Patrick Chamoiseau in quello straordinario laboratorio umanamente e poeticamente creativo che sono le Antille francesi. Questi antillesi – soprattutto neri discendenti di schiavi, ma consapevoli che il loro mondo caraibico è nero, bianco, cinese, indiano, siriano e indio, per il crogiolo di genti che vi sono arrivate – non si chiudono in alcuna regressiva identità compatta e pretesamente pura né si abbandonano al miscuglio indifferenziato, bensì vivono le loro radici orizzontalmente, radici che non scendono nel buio atavico del profondo e delle origini, bensì si allargano in superficie, incontrandone altre e unendosi ad esse come mani che si stringono. L'Io si trova nell'incontro con l'Altro, in un mondo che è Mondo-Relazione; una grande risposta alla violenta ossessione di purezza etnica ed identitaria che paralizza e talora insanguina il mondo.


L'italianità di Trieste è stata grande, perché è stata anche l'amalgama di tante componenti diverse, non la loro esclusione, come dicono tanti nomi di diversa origine di tanti patrioti italiani. A questa funzione, in forme diverse – diverse pure dall'amalgama – è legata la sua reale, creativa sopravvivenza, cosa diversa dal sospettoso vivacchiare. Una sopravvivenza difficile, se si pensa che dalle nostre parti c'è pure qualche capo ameno il quale teme il contagio di presidi di scuola nati nell'Italia meridionale. Ma non c'è da preoccuparsi che queste farneticazioni vengano prese in considerazione; siamo pur sempre nei territori della vecchia Austria, grande nell'arte di non prestar attenzione alle sciocchezze; quella vecchia Austria in cui, scrive Musil, succedeva spesso che un genio venisse scambiato per un babbeo, ma non accadeva mai che un babbeo venisse preso per un genio.

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