Trieste, tre anni di carcere e 400mila euro di multa alla passeur che trasportava 30 migranti in furgone
La donna, 51 anni, residente in Belgio, era stata arrestata nel 2019. Condannata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo un processo bis: decisiva la collaborazione con le autorità

Tre anni di carcere e una maxi multa da 400 mila euro per aver portato in Italia più di trenta migranti irregolari stipati in un furgone. È la condanna inflitta ieri mattina dal Collegio del tribunale a Ema Fatan, passeur indiana di 51 anni.
La donna, residente in Belgio, era finita alla sbarra con l’accusa di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina. Era stata rintracciata e arrestata a Trieste nel 2019 con un intero carico di clandestini, caricati in Slovenia e a cui doveva garantire “l’ultimo miglio” della lunga e pericolosa Rotta balcanica.
Il reato di cui deve rispondere è punito in modo severo, dopo il recente inasprimento della normativa. Le pene possono arrivare anche a sedici anni, nel caso in cui sussistano anche una serie di aggravanti, partendo da una base di sei anni. L’imputata indiana, dunque, se l’è cavata con una pena tutto sommato mite.
Un risultato ottenuto al termine di un processo “bis”, su cui ha inciso la scelta di collaborare con le autorità immediatamente dopo l’arresto, a cui la passeur ha riferito le informazioni di cui era in possesso.
Agli inquirenti aveva raccontato di essere stata ingaggiata da un suo conoscente balcanico per accompagnare in Italia un gruppo di suoi amici. Quel viaggio le sarebbe fruttato mille euro.
Per lei, che all’epoca viveva ai margini e aveva bisogno di soldi, era sembrata un’occasione da non perdere. Anche perché le era stata prospettata come un guadagno sicuro, senza rischi particolari. Un viaggio in auto con una comitiva a bordo.
Ma già al momento di ritirare il mezzo a noleggio, le era venuto il dubbio che l’ingaggio nascondesse qualche insidia. Anziché una macchina, infatti, si era trovata a dover guidare un furgone. Giunta in Slovenia, nel luogo concordato, si era trovata di fronte più di trenta migranti.
A quel punto era chiaro che il viaggio in Italia non poteva avere nulla di lecito. Eppure non si era tirata indietro, spaventata più dalle possibili ritorsioni che dalle conseguenze penali a cui sarebbe potuta andare incontro in caso di arresto.
Così, dopo aver fatto salire a bordo i passeggeri, si era messa al volante seguendo le indicazioni che le impartiva in tempo reale chi aveva organizzato quel traffico illecito di esseri umani. Arrivata in città, era incappata nelle pattuglie e per lei erano scattate le manette.
Dopo alcune notti passate nella sezione femminile del Coroneo, l’allora gip Luigi Dainotti l’aveva scarcerata perché le indagini avevano escluso che la donna facesse parte di un’associazione dedita al traffico dei migranti. La donna probabilmente aveva fatto ritorno in Belgio. Nel frattempo la giustizia ha fatto il suo corso, lungo e tortuoso.
Nel 2020 la donna era stata condannata in primo grado a 4 anni e 6 mesi e al pagamento di una maxi multa. Il difensore d’ufficio, l’avvocata Marta Silano, aveva fatto ricorso chiedendo l’assoluzione, sostenendo che la sua assistita non sapesse di andare incontro a un illecito, viso che le iniziali regole d’ingaggio erano ben diverse dalla realtà. Successivamente la donna avrebbe eseguito gli ordini spinta dalla paura.
Proprio in Corte d’Appello era arrivato il colpo di scena: sentenza annullata e processo da rifare. I giudici di secondo grado avevano rimandato gli atti al tribunale. Il processo era dunque ripartito di fronte a un nuovo Collegio, presieduto da Giorgio Nicoli e con a latere i colleghi Francesco Antoni e Luisa Pittalis. A rappresentare l’accusa ieri è stato il pm Federico Frezza. Stavolta il sipario è calato con una condanna più lieve, almeno in termini di pena carceraria: tre, infatti, gli anni di reclusione inflitti all’imputata. Mentre rimane cospicuo l’importo della multa, calcolata in base al numero di migranti trasportati illegalmente. Visto che l’imputata è assente stavolta il difensore potrà impugnare la sentenza soltanto su mandato speciale della sua assistita, come stabilisce la riforma Cartabia. In caso contrario la sentenza passerà in giudicato.
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