Trieste, il cinghiale seduce la maialina. E l’allevatore finisce a processo

TRIESTE Tutta colpa degli ormoni. Il cinghiale è entrato baldanzoso nell’allevamento dell’area del consorzio boschivo di Padriciano e, dopo aver girato indisturbato per un bel po’, ha trovato in un container un maiale che era stato castrato in precedenza e, scoperta ben più interessante, quattro maialine. Non ha resistito e ha approfittato della più bella.
La storia, seppur passeggera, ha dato i suoi frutti: una piccola cinghiomaiala è venuta al mondo dopo qualche mese. Ma l’animale, frutto del rapporto tra il cinghiale e la maiala, ha creato un sacco di guai giudiziari al proprietario dell’allevamento: Carlo Grgic, 75 anni, è stato infatti messo sotto accusa dal pm Massimo De Bortoli. Ed è finito a processo.
La sua colpa: aver detenuto all’interno di un container, in spregio alla legge regionale, «un esemplare vivo di cinghiale femmina di specie selvatica proveniente da riproduzione in cattività che costituiva pericolo per la salute e per l’incolumità pubblica».
L’allevatore, alla fine, se l’è cavata ed è stato assolto dal giudice Massimo Tomassini perché il fatto non costituisce reato. Ma la cinghiomaiala, che nel frattempo era cresciuta e si era a sua volta riprodotta, ha fatto una fine orribile: è stata abbattuta, assieme ai suoi piccoli, su ordine dell’Asl.
La vicenda surreale è iniziata il 24 ottobre 2013 con un assalto in puro stile far west al container dove la cinghiomaiala aveva trovato alloggio. «Sono arrivati in sedici e hanno circondato l’intera area. C’erano i forestali, i vigili urbani e persino gli ispettori dell’azienda sanitaria. È stato un vero e proprio blitz come quelli che si vedono in tivù...» racconta Grgic.
E, subito dopo, continua: «Per la verità ero stato proprio io, qualche giorno prima, ad avvisare la Forestale. Avevo comunicato che quell’esemplare un po’ strano aveva appena partorito tre cuccioli scuri e tre chiari. In breve era scoppiato il finimondo perché, come ho scoperto in seguito, è severamente vietato detenere i cinghiali a meno che, dopo la vaccinazione, non si ottenga una specifica autorizzazione della Regione. Ma io come potevo sapere che un cinghiale, qualche mese prima, aveva ingravidato una scrofa del mio allevamento? E che colpa ne avevo se quel cinghiale che mi ha inguaiato era entrato nell’area e aveva seguito l’istinto della sua natura?».
Il giudice gli ha dato ragione, ed è storia di questi giorni, ma in precedenza l’allevatore ha avuto le sue gatte da pelare. Gli ispettori dell’Asl, dopo il blitz, hanno emesso un verbale in cui c’è scritto che, «a causa dell’impossibilità di garantire un adeguato isolamento degli animali, negli ultimi due anni, si sono verificati numerosi parti da parte di scrofe che sono state coperte da cinghiali introdottisi nella zona destinata alla stabulazione e al pascolo dei suini. Questo rende inapplicabili le disposizioni relative al piano di eradicazione (eliminazione, ndr) della malattia di Aujevskij».
Risultato: l’allevatore è finito in tribunale. E il pm, al termine dell’udienza ha chiesto la sua condanna alla pena di 8mila euro d’ammenda. Il difensore Peter Mocnik si è battuto per l’assoluzione. E ce l’ha fatta. Il giudice Tomassini, nelle motivazioni depositate ieri, ha chiarito il perché: «L’animale era stato rinvenuto dopo un controllo da parte di appartenenti al corpo forestale regionale e non vi erano le autorizzazioni della prefettura necessarie».
Non solo: «L’animale era sicuramente un ibrido ma, una volta fatta questa considerazione, gli specialisti (sono comparsi in aula due veterinari dell’Azienda sanitaria, ndr) non sono stati in grado di pronunciarsi sulla natura di tale ibrido con sufficiente precisione e chiarezza». Tradotto: non hanno saputo chiarire se la cinghiomaiala scoperta nel container con i cuccioli era di prima o di seconda generazione.
E allora, ha aggiunto il giudice, «è chiaro che maggiormente difficoltosa sarebbe stata una simile operazione per l’imputato che verosimilmente non dispone delle conoscenze di chi studia a livello professionale detti animali». Insomma, ha concluso il magistrato, considerato che «assai discutibile è la definizione dell’animale in questione», non si può escludere che «l’imputato, prima della nascita dei cuccioli, non fosse a conoscenza della detenzione da parte sua di un ibrido abbisognevole, per una detenzione legittima e corretta, di autorizzazioni che nel caso di specie non c’erano».
L’allevatore in buona fede, dunque, si è salvato. Ma, nonostante ciò, nel rispetto della prescrizione dei veterinari, ha dovuto abbattere l’incolpevole cinghiomaiala e gli ancor più incolpevoli cuccioli “sospetti”. Il tutto per la tempesta ormonale di un cinghiale.
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