“Trieste Science+Fiction” compie 50 anni

La storica rassegna festeggia mezzo secolo, l’edizione 2013 dal 30 ottobre al 3 novembre alla Tripcovich

di Paolo Lughi

La sera del 6 luglio 1963, nel Castello di San Giusto trasformato in arena cinematografica, le luci del Cortile delle milizie si spensero per la prima volta davanti alle immagini di uno schermo gigante, che per una platea incuriosita di mille persone iniziò a proiettare astronavi e mostri alieni, pianeti lontani e società future. Sfilavano film che facevano un po’ preoccupare, un po’ sorridere e un po’ rabbrividire, anche per la strana brezza che regolarmente accompagnava quelle proiezioni all’aperto e che imponeva per nove giorni il golfino sulle spalle.

Quella prima sera si proiettò il documentario italiano “Le origini della fantascienza” di Silvestri e Falessi, seguito dal lungometraggio cecoslovacco “L’uomo del primo secolo” di Oldrich Lipský, “garbata satira dell’automazione nel mondo del futuro” (secondo il giornalista Carlo Ventura). Nasceva così, 50 anni fa ieri, il primo Festival della fantascienza di Trieste, pioniere tra le rassegne di questo genere, che sarebbe stato presto imitato in Spagna, Francia, Belgio e un po’ ovunque.

In quegli anni eroici ospitò personalità come Umberto Eco (in giuria nel 1963), Roger Corman (subito premiato nella prima edizione), Arthur C. Clarke (che nel ’68 illustrò in anteprima “2001: Odissea nello spazio”) e poi Forrest J. Ackerman, Frederik Pohl, Mario Soldati, presidenti di giurie illuminate e anche profetiche (come nel caso dell’esordiente John Landis, vincitore nel 1973 con il grottesco “Schlock”). Si videro in anteprima “La città verrà distrutta all’alba” (’73) di Romero e “Dark Star” (’74) di Carpenter.

In anni di Guerra fredda il progetto trovò un luogo ideale di sviluppo a Trieste, avamposto sulla Cortina di ferro, sede di un forte consolato Usa e di contatti storici con l’Est, con un’idea di “città della scienza” già avviata.

Cinquant’anni dopo, nell’attuale (ma allora fantascientifico) 2013, il festival vedrà la sua prossima edizione (col nome di “Trieste Science+Fiction”) dal 30 ottobre al 3 novembre. Non più al Castello e nemmeno al Cinecity, ma (per la seconda volta) in Sala Tripcovich, che nel 2012 si è gremita per ottime anteprime, sul livello di quelle che hanno incluso, negli ultimi anni, fantatitoli fra i migliori di sempre, da “Moon” a “Serenity”, da “Donnie Darko” al coreano “The Host”. È stata anche annunciata una mostra per il 50° (con la collaborazione della Provincia) nel restaurato Magazzino delle Idee.

In attesa delle nuove personalità, ricordiamo alcuni miti arrivati di recente a Trieste, quasi fossero viaggiatori nel tempo provenienti da quei primi anni del festival: Corman, Christopher Lee, Romero, Landis.

La rassegna è dunque proseguita, in questo mezzo secolo, senza scossoni? Niente affatto, come si sa. Il festival è morto nel 1983 (ucciso anche dalla SF milionaria di Lucas e Spielberg), sembrava sepolto per quasi 20 anni ed è risorto come Lazzaro nel 2000, con una storia probabilmente unica nell’avventura comunque burrascosa e precaria dei festival, rafforzando (stavolta però con una nota . ottimistica) la particolarità sempre attribuita a Trieste.

Qual è dunque il segreto di un festival che muore e che rinasce ben vent’anni dopo, come il romanzo di Dumas? La verità, che viene riconosciuta sempre a posteriori, forse è piuttosto semplice. La rassegna compì quella missione che si chiede ai migliori festival: scoprire le opere di qualità che resterebbero altrimenti ai margini della conoscenza, valorizzandole e tramandandole alle nuove generazioni.

Prendiamo “La Jétée” di Chris Marker, film premiato con l’Astronave d’oro nel 1963. Come ha osservato Roy Menarini in “Cinema e fantascienza” (Archetipo), in quei primi anni ’60 il cinema d’autore europeo era rigenerato dalle Nouvelle vague e da una nuova libertà produttiva. E guardava con occhi nuovi alla fantascienza, rendendola meno hollywoodiana e più sperimentale, aprendola alle paure postbelliche.

Capofila di quel filone fantasociale è oggi riconosciuto proprio “La Jétée”, mediometraggio con fotogrammi fissi su un futuro oscuro in cui gli uomini sono spinti a viaggiare psichicamente nel tempo. A “La Jétée” si è ispirato “L’esercito delle dodici scimmie” (‘95) di Gilliam, ma anche “Looper” di Rian Johnson, il film che ha aperto la scorsa edizione del festival e che - grazie alla sua stessa trama di viaggio all’indietro nel tempo - ha chiuso idealmente un cerchio (“loop”) con “La Jétée”.

E che dire dell’altra Astronave d’oro (ex aequo) del 1963, “Voyage at the end of the Universe - Ikarie XB 1” di Jindrich Polak (Cecoslovacchia), in cui l’astronave del titolo si imbatte in una navicella di 500 anni prima, con un carico di cadaveri e un ordigno nucleare? È un film anticipatore di stereotipi di molta fantascienza spaziale moderna, a partire dalla scoperta dell’astronave fantasma. Nelle edizioni successive, i premi andarono ancora a titoli e autori che riflettevano in modo profondo il clima sociopolitico. Nel 1964 vinse Losey con “Hallucination” (“The Damned”), film archetipico sul pericolo atomico. Nel 1965 si impose “Alphaville” di Godard, dove Parigi è dominata da un’intelligenza artificiale. Nel 1968 la giuria guidata da Mario Soldati assegnò il nuovo premio Asteroide d’oro a “The Sorcerers” (“Il killer di Satana”) di Michael Reeves, col “Mad Doctor” Boris Karloff che si impadronisce delle menti dei suoi pazienti. Nel 1970 l’Asteroide andò a “Gladiatorerna” di Peter Watkins, anticipatore di “Hunger Games” e altri film simili. Nei secondi anni ’70, il Festival ebbe poi un innesto importantissimo con le retrospettive della Cappella Underground: Fant’Italia e Fant’America. Quella pionieristica rassegna seppe dunque trasmettere segnali (film) talmente forti verso il futuro, nonostante si fosse trasformata a un certo punto in astronave fantasma, che tali segnali sono stati raccolti tanti anni dopo (proprio come in uno dei film che amava proiettare) da una coraggiosa “astronave di salvataggio” chiamata “Science+Fiction”.

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