Un giorno da profugo fra amicizia e insulti

TRIESTE Per un giorno mi chiamo “Kerim Berisha”, ho 29 anni e sono kosovaro. L’abbronzatura estiva, la barba, un paio di ciabatte e una vecchia maglietta fanno il resto. Nello zainetto tengo una bottiglietta d’acqua, un asciugamani e il cellulare. Niente soldi né documenti. Il “travestimento” da migrante, arrivato a Trieste di notte e che parla a stento l’inglese, serve a confondermi tra i gruppi di pachistani e afghani che bivaccano al Silos.
Vogliamo scoprire come vivono la città. Dove mangiano. Chi incontrano. Come sono riusciti a venire qua. Chi li aiuta e li accoglie. Ma anche testare l’eventuale diffidenza dei passanti, osservarne gli sguardi, coglierne i commenti. Venerdì mattina, le nove in punto. Il sole scalda già la città. Piazza Libertà è un via vai di gente che scende dagli autobus, tra alcolizzati che sorseggiano lattine di birra e tossici che si guardano attorno. I senzatetto che hanno dormito sulle panchine si lavano viso e piedi nella fontanella. Attraverso la strada, imbocco il vialetto che costeggia la Stazione ferroviaria verso il Silos.
È transennato, ma a metà scorgo un piccolo varco ricavato con una cesoia. Entro. Silenzio, penombra. Escrementi e umido. Per terra, qua e là, i primi giacigli. Materassi, stracci, vestiti e scarpe nel fango. Sembra non ci sia nessuno. Scatto foto. In fondo, nell’ala opposta, intravedo quattro sagome avvolte in coperte e sacchi a pelo. Mi avvicino facendo rumore sul terriccio. Un giovane dalla pelle scura apre gli occhi. «Is there a place for me?», chiedo. C’è spazio? Gli faccio intendere che sono stanco e affamato. Mi indica la parte sopra. Avanzo su una scalinata di calcinacci, tra spazzatura e scritte in arabo. L’odore è fetido. Mi infilo in un buco, tra gli spuntoni di ferro, e salgo i gradini. Bisogna stare attenti dove si cammina: sotto c’è il vuoto. Loro sono là, stesi sulle arcate, una decina credo. Dormono ancora. Mi siedo accanto a un gruppetto di quattro, appoggio la testa sullo zaino e mi appisolo. Pochi minuti dopo un ragazzo si alza e mi guarda. «Vengo dal Kosovo», gli spiego in inglese. «Sono appena arrivato, non so dove andare, non ho da mangiare. Posso stare con voi?».
Mi risponde con un gesto della testa. Si svegliano pure gli altri. Si vestono senza badare a me, ma quando decidono di andare giù mi dicono «vieni». Li seguo. Sono con Khan, Hann e Bacha, pachistani. Più tardi conoscerò Abdi. Hanno tra i venti e i ventotto anni. Usciamo dal Silos arrampicandoci su un’inferriata. Pochi passi e siamo in Stazione tra la gente. «Sei musulmano? », incalza Khan. Mentire è pericoloso, allora gli mostro la crocetta che ho al collo. Raggiungiamo il Centro diurno di via Udine, gestito dalla Comunità di San Martino al Campo e dall’Ics. Gli operatori non domandano nulla. Intorno vedo altri immigrati, anche africani, insieme ai senzatetto. Ci sono bagni e docce. Lì danno il sapone e roba per la barba. E la colazione. Khan, Hann e Bacha si preoccupano subito di me. Prendono un bicchiere di latte con lo zucchero e me lo porgono. «Take, brother». Non mi fanno troppe domande: m’invento che sono qui di passaggio e che l’indomani devo prendere un treno per raggiungere i familiari a Firenze. Stiamo al Centro per un paio d’ore.
Dopo la doccia si chiacchiera, si sonnecchia ancora, si guarda la tv. A mezzogiorno è ora di andare: c’è il pranzo alla mensa Caritas di via dell’Istria. Prendiamo la 20 in piazza Libertà, ci sediamo in fondo. Sale il controllore. Loro hanno l’abbonamento mensile fornito dall’Ics, io no. «Stai tranquillo, non ti domandano niente», bisbiglia Khan. Così è, il travestimento da profugo funziona. Scendiamo dopo la galleria di piazza Foraggi e ci dirigiamo in via dell’Istria. La mensa è piena. Hann mi raccomanda di dire all’ingresso che sono «nuovo »: «Così ti danno da mangiare e basta». Annuisco. «Kerim Berisha, Kosovo – scandisco all’operatrice – I’m new». Lei mi osserva un attimo, trascrive il nome su un foglio e mi lascia passare con un sorriso. Non negano un pasto a nessuno.
Lo stanzone è un pezzo di umanità, è la “città parallela” che Trieste non sa di avere in casa. Pachistani, afgani, nigeriani e rumeni, seduti accanto a vecchi barboni e ad altre persone che si potrebbero normalmente incrociare al bar: sono triestini che non hanno da mangiare. Nei piatti servono pasta e riso con sugo e tonno, cotolette, insalata e anguria. Khan, Hann e Bacha aggiungono pepe a volontà su tutto. Sull’anguria mettono il sale. Il pranzo è il momento buono per sapere qualcosa di più. Raccontano del viaggio dal Pakistan all’Italia: Iran, Turchia, Grecia e tutta la rotta Balcanica. A piedi per otto mesi. «Scappiamo dai talebani ».
Uno del gruppo mima il gesto della pistola alla tempia. «Volevano uccidermi». Stanno al Silos perché non c’è altro posto al momento. «L’Ics ci dice che dobbiamo aspettare», afferma Khann. Vorrebbero restare qui o andare a Roma. «Io a Prato – interviene Bacha – è industrializzata, c’è lavoro ». Finito il pranzo riprendiamo il bus per andare alla preghiera nel Centro culturale islamico di via Pascoli. Entro scalzo, come si usa, tra decine di musulmani di tutte le nazionalità. Prima di inginocchiarsi si fa il rito dell’abluzione, il “wudu”, la purificazione con il lavaggio di mani, bocca, naso, viso, capelli, orecchie e piedi. Lo fanno tutti in fila al lavandino. Quelli del mio gruppo sanno che sono cristiano, ma mi permettono di rimanere. Mi sistemo in un angolo, sento l’imam che in italiano parla di «pace e fratellanza». Fuori conosco Abdi, richiedente asilo pachistano.
L’Ics gli ha dato un alloggio in hotel. Nei giorni scorsi ha lavorato nelle cucine del Triskell, il festival che si tiene al Ferdinandeo. Facciamo amicizia e vuole offrirmi da bere a tutti i costi. Andiamo in un supermercato di largo Barriera dove compra due bottiglie d’aranciata e bicchieri. Chiedono se ho bisogno di usare internet. Rispondo di sì. Mi accompagnano all’inizio di viale XX Settembre, un punto di incontro per i migranti. Stiamo lì due ore, seduti sulle panchine, collegati al wifi assieme a una trentina di altri profughi, tra le mamme con i passeggini e i passanti con il gelato. La rete viene usata per le videochiamate su Whatsapp, per contattare i familiari in Afghanistan e in Pakistan. Ecco svelato il mistero dei richiedenti asilo “sempre” con lo smartphone in mano. «Varda ‘sti qua, vardili… tutti col cellulare…», mormora in dialetto una signora. Con sdegno. Loro non se ne accorgono. Hann prende la bottiglia e offre l’aranciata a tutti, anche a un vecchietto vicino.
È un triestino. Il tempo passa così, a chiacchierare tra connazionali. Amici, forse compagni del lungo viaggio della speranza, che si rivedono con piacere in piazza. «Sì – ammette Abdi – non abbiamo niente da fare. Io però di mattina partecipo ai corsi d’italiano e ogni tanto andiamo in spiaggia con la 6». Vanno a Barcola. A metà pomeriggio si ritorna al Centro di via Udine per prendere il caffè e fare un’altra doccia. Il gruppetto riposa seduto, aspettando che le ore trascorrano. La cena è alle sei, ancora alla Caritas. Li seguo, stando sempre attento a non farmi riconoscere per strada. La 20 è colma. «Ciò! – urla all’improvviso un ragazzo triestino rivolgendosi a noi, me compreso – digo a voi, merde! Qua semo in Italia!». Mentre sbraita, fa cadere il borsello che ha sulla spalla. Bacha glielo raccoglie. Scendiamo. In mensa, insieme alla pasta, stavolta c’è pure minestra. Hann si arrabbia perché non ho preso lo sgombro in scatola: «Potevi darlo a me», mi rimprovera. La serata si passa in centro e in viale, prima di fare ritorno al Silos, quando è buio. Li saluto con una scusa, dicendo che preferisco dormire in Stazione. «Why brother?…». Ci lasciamo con un abbraccio. Mi avrebbero trovato un giaciglio nelle baracche della loro città nascosta.
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