Un libro svela i misteri del bandito Giuliano

Una ricerca durata quindici anni. Centinaia di documenti, articoli, cronache giudiziarie, testimonianze raccolte negli archivi italiani, americani e inglesi. È un’ampia inchiesta storica e insieme una biografia criminale il libro di Giuseppe Casarrubea e Mario Josè Cereghino “La scomparsa di Salvatore Giuliano - Indagine su un fantasma eccellente”, nelle librerie da oggi per l’editore Bompiani (pagg. 360, euro 12,50). Un’inchiesta che, mettendo insieme come in un complesso puzzle i tasselli tratti da fonti primarie (documenti dei servizi segreti italiani, dell’Oss, antesignano della Cia, le carte inglesi del Foreign Office) dà corpo a una delle più controverse ipotesi sulla vicenda Giuliano: a morire nella sparatoria di Castelvetrano il 5 luglio 1950 non fu il Re di Montelepre, bensì un suo sosia, mentre Salvatore Giuliano riparò negli Stati Uniti con la complicità e sotto la protezione dei servizi segreti italiani e statunitensi. Dietro, le trame dei rapporti e i negoziati occulti fra Stato, servizi segreti e mafia per coprire scomode verità, a cominciare dalle responsabilità per la strage di Portella della Ginestra.
Del resto, dicono Casarrubea e Cereghino, le recenti indagini sul dna della salma di Giuliano, avviate nel 2010 proprio per loro iniziativa, non hanno portato a una risposta definitiva. Gli stessi Casarrubea e Cereghino non si avventurano in affermazioni risolutive, ma si limitano a mettere insieme elementi e documenti accertati.
Con alcune novità, come la testimonianza di Michele Ristuccia, settantenne ex agente dei Servizi in forza all’organizzazione Anello, alle dirette dipendenze di Giulio Andreotti, che nell’ottobre del 2010, sentito dai magistrati, testimoniò di aver accompagnato Salvatore Giuliano nel 1971 ai funerali della madre.
Nel corso della sua deposizione, Ristuccia confermò come il sosia di Giuliano venne attirato a Castelvetrano con la scusa di fare un servizio fotografico, precisando che la madre di Giuliano finse di riconoscere la salma e che il bandito in realtà andò negli Stati Uniti a lavorare per il Pentagono con il nome di Joseph Altamura, prima di morire di infarto nel 1985.
Quale sia la verità, il libro di Casarrubea e Cereghino, come nota Nicola Tranfaglia in prefazione, «sferra un colpo decisivo a una leggenda falsa e ipocrita circolata negli ultimi settant’anni e mostra ancora una volta come in Italia il passato pesi perfino troppo sul presente».
E a proposito di leggende, gli autori non risparmiano critiche al film che ha consegnato la storia di Giuliano all’immaginario popolare, quel “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, prodotto da Franco Cristaldi e uscito nella sale cinematografiche nel 1961. Rosi fu il primo a dare una lettura suggestiva della scomparsa del monteleprino, tuttavia, scrivono Casarrubea e Cereghino, «nella pellicola, manca la collocazione storica non solo della figura del bandito di Montelepre, ma di tutto un mondo reazionario che si oppone al processo democratico in atto» dopo la fine della guerra.
Nel film di Rosi, piuttosto, «sembra di assistere a un vecchio western popolato da tribù indiane, da soldati della cavalleria dell’Esercito Usa, da giornalisti affamati di notizie sensazionalistiche.
Il tutto all’interno di un paesaggio impervio tipo Arizona o Nuovo Messico». In realtà, per citare ancora Tranfaglia, «per i due studiosi non vi è dubbio che Giuliano è l’emblema del momento convulso in cui si dibatte l’isola tra spie senza scrupoli, mafiosi scappati di galera, criminali comuni che aspirano a fare carriera, terroristi e sabotatori nazifascisti».
Insomma, nell’arco degli anni Quaranta, Salvatore Giuliano appare più come un terrorista e un capo di squadre ben armate collegato ai Servizi segreti americani e italiani che non un “bandito” «nel senso tradizionale di scorridore delle campagne siciliane, come un mito duro a morire ha sempre tentato di dipingerlo e come i mezzi di comunicazione di massa continuano a fare in America e in Italia, sia per nascondere almeno in parte la netta collocazione a destra, nel fascismo di Salò, del giovane siciliano sia per giustificare le troppe vittime delle sue azioni stragiste».
Dunque, concludono gli autori, non un Robin Hood di casa nostra ma un «moderno terrorista asservito alle organizzazioni nazifasciste, ai poteri occulti, a Gladio, all’Anello della Repubblica». E che lo «Stato abbia fatto ogni sforzo per venire a patti con questo mondo già in quegli anni torbidi, è fuori discussione. Come fuori discussione è anche il fatto che vi sia stata una trattativa tra membri autorevoli delle istituzioni e uno stragista legato a doppio filo alle cosche mafiose e ai Servizi».
Una matrice, questa, comune a tanti misteri dell’Italia contemporanea.
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